Algeri, un sabato alla vigilia della battaglia

Algeri, un sabato alla vigilia della battaglia

«Siamo seduti sull’orlo di un vulcano». Forse queste famose parole hanno risuonato nell’ufficio del presidente algerino Abdelaziz Bouteflika il 3 febbraio scorso quando faceva dire al suo braccio destro, il ministro degli Esteri Mourad Medelci, che la fine dello stato d’emergenza – instaurato nel lontano 1992 – era ormai imminente, che l’opposizione avrebbe avuto accesso agli studi televisivi e alle trasmissioni radio e che nuove misure per i senzatetto sarebbero state approvate a breve. Misure palesemente tardive e volte esclusivamente a evitare il probabile terremoto che sta per abbattersi sul regime pietrificato di Bouteflika. La reazione dell’establishment algerino nei confronti della manifestazione pacifica indetta dal Coordinamento Nazionale per il cambiamento e la democrazia (Cncd) nel centro di Algeri il 12 febbraio scorso ne è infatti una prova indiretta: di fronte a un pacifico corteo di non più di 2000 persone uno spiegamento di oltre 30.000 agenti.

Le pouvoir panique commentavano i cyber-dissidenti su twitter. Dopo la Tunisia e l’Egitto potrebbe essere la volta dell’Algeria? Sembra singolare che nel Paese che ha reagito più celermente alle proteste di Sidi Bouzizi (Tunisia) non ci siano stati assembramenti giganteschi come quelli che ci ha abituato a vedere la piazza Tahrir, al Cairo. In realtà qualcosa cova sotto la cenere. Sin dalle sommosse di gennaio la tensione non è mai scemata. Giovani precari continuano a immolarsi davanti ad edifici governativi. Fino a oggi i tentativi sono stati circa trenta. Mohand Aziri, reporter per il quotidiano El Watan, racconta di aver salvato un lavoratore precario che stava per immolarsi con una tanica di benzina davanti al ministero del lavoro algerino. Padre di tre bambini, l’uomo lavorava per un salario di miseria (50 euro al mese). Aziri, nella sua cronaca, ricorda pure che il Comitato nazionale per la difesa dei lavoratori disoccupati, che ha partecipato alle proteste del 12 febbraio scorso, conta tra le sue fila anche un comitato il cui nome farebbe venire i brividi a chiunque in Europa: “Coordinamento disoccupati suicidi delle wilayas (dipartimenti, ndr) del Sud”. Sembra uno scherzo grottesco, ma non lo è. La popolazione algerina è allo stremo e potrebbe presto seguire l’esempio dei tunisini e degli egiziani anche se le condizioni qui sono molto diverse. A spiegarlo è Mustafa Bouchachi, presidente della Lega algerina per i diritti dell’uomo (Ladh): «Noi algerini abbiamo vissuto la guerra civile e dobbiamo progredire lentamente. A differenza degli egiziani dobbiamo riuscire prima a rompere il muro della paura e del silenzio». 

Il muro della paura è stato costruito in un ventennio di repressione e paura dall’esercito. A partire da quel lontano ottobre 1988. L’esercito soffoca nel sangue la prima grande insurrezione popolare. Oltre cinquecento morti. Poi arrivano gli anni della guerra civile che ha insanguinato l’Algeria tra il 1991 e il 2000 e che provocheranno complessivamente 150.000 morti. Gente sgozzata, decapitata, giovani donne violentate, intellettuali eliminati fisicamente, torturati o costretti all’esilio. Un orrore senza fine. Tutto con la sapiente regia dell’esercito. Altra insurrezione, nel 2001, questa volta in Cabilia. L’esercito reagisce ciecamente: 126 morti. Ecco perché gli algerini ci vanno con i piedi di piombo e non osano ancora fare ciò che hanno già fatto tunisini ed egiziani. L’esercito qui non è percepito come una forza neutrale come in Egitto. Secondo lo storico algerino Benjamin Stora, il ruolo dell’esercito nella vita politica algerina è cambiato nel corso degli anni. Dal 1962 al 1965, durante la presidenza di Ben Bella, l’esercito, pur permettendo a Ben Bella di accedere al potere, si è tenuto in disparte dalla vita politica. In seguito, con il golpe militare del 1965 e la presidenza di Boumedienne, l’esercito si è pian piano imposto sulla scena politica. A partire dell’ottobre 1988 (con la repressione) ma soprattutto dal 1992 in poi, nel corso della guerra contro gli estremisti islamici, l’esercito è diventato il braccio armato della repressione politica a tutti i livelli. Lo stato di emergenza con il quale Bouteflika ha fatto uscire l’Algeria dal “decennio nero” è stato di fatto utilizzato come escamotage per segregare il popolo algerino per quasi un decennio.

Il paradosso algerino è quello di essere un Paese ricco di risorse energetiche ma con una popolazione estremamente povera. Il tasso di disoccupazione si attesta sul 10% e quello dei giovani sotto i trent’anni è addirittura superiore al 25%. Il suolo algerino è ricco in gas, giacimenti petroliferi e altre risorse. Forse è per questo che la compagnia di stato Sonatrach – fiore all’occhiello dell’industria algerina – ha deciso, per bocca del suo direttore Nordine Cherouati, di raddoppiare le esplorazioni petrolifere quest’anno. Con 51mila dipendenti, Sonatrach ha esportato l’anno scorso idrocarburi per 56 miliardi di dollari nonostante un ribasso della produzione: 214 milioni di tep (tonnellata equivalente di petrolio) contro 2222,5 milioni di tep del 2009. Solo l’anno scorso nel sottosuolo algerino sono stati scoperti 27 nuovi giacimenti. Ma a fronte di tutti questi introiti derivanti dalla sfruttamento delle immense risorse energetiche del Paese – che servono a rimpinguire le casse dello Stato e una struttura che sembra creata su misura per Bouteflika – all’orizzonte non si vede il minimo miglioramento del tenore di vita degli algerini. 

Dall’estero il Fronte Islamico per la Salvezza (Fis) – fondato nel 1989 nella moschea algerina di al-Sunna e sciolto ufficialmente nel 1992 – ha ufficialmente appoggiato la marcia del 12 Febbraio scorso in cui migliaia di persone hanno riposto all’appello del Cncd. Ma i membri del Cncd non ne vogliono sapere del Fis: «Hanno distrutto l’Algeria», dicono. Nessuno può dar loro torto. Attentati, omicidi, massacri. Il Fis ha fatto terra bruciata attorno a sé per un decennio e ha propagato a lungo i suoi tentacoli anche in Francia (nove attentati nel 1995 tra cui uno nella stazione del metrò di Saint Michel provoca la morte di otto persone e il ferimento di altre 118). Teoricamente il Fis esiste solo nella voce acre del suo ex numero due Ali Belhadj, che nel passato lanciava fatwa di condanna a morte contro gli infedeli e denunciava la politica coloniale francese. Malgrado il suo tentativo di utilizzare le insurrezioni di gennaio scorso per la sua causa teocratica, Belhadj è oggi agli arresti domiciliari con i militari che lo sorvegliano da vicino. Secondo la politologa Amel Boubekeur esistono però altre costellazioni politico-religiose da tenere d’occhio come l’Ennahda, l’Islah ed il Movimento della società per la pace (Msp). Alleandosi con diversi “pentiti” del Gia (Gruppo islamico armato, fondato nel 1992), queste formazioni erano divenute, nel 2002, la seconda forza politica d’Algeria. Bouteflika stesso ha appoggiato una parte del suo consenso sui “pentiti” integralisti spendendo oltre 152 milioni di euro per reintegrarli nella società. Il paradosso, spiega la Boubekeur, è che combattendo l’integralismo una parte del Paese è diventato integralista nel midollo in quanto il governo si è fatto al contempo promotore di un «risanamento dei costumi».

Ma dopo gli eventi di Tunisia ed Egitto il Paese è ormai in marcia verso un futuro ancora incerto. Il Cncd, nato il 21 Gennaio scorso sulla scia delle rivolte che hanno causato cinque morti e oltre ottocento feriti, chiama a una nuova giornata di protesta sabato prossimo 20 Febbraio. Il motto del Cncd, che include diversi partiti d’opposizione, rappresentanti della società civile e sindacati non allineati al regime, è guarda caso «cambiare il sistema». Mohsen Belabes, leader del partito d’opposizione Rassemblement pour la culture et la démocratie (Rcd) ha ricordato che tutte le forze d’opposizione continueranno a riunirsi ogni sabato « fino a quando il regime non cadrà». Ci sembra di aver già sentito queste parole. Dopo i venerdì della collera che hanno provocato la caduta di Mubarak attendiamo di scoprire cosa porterà il sabato al futuro dell’Algeria.