Dopo Gheddafi il vuoto. La Libia non dispone di una classe medio-borghese. Non esistono partiti di opposizione, né un esercito forte con funzioni di garanzia. Non si intravede una figura carismatica che possa ereditare il potere. Neppure, in realtà, esiste una vera identità nazionale. Gheddafi con il colpo di stato del 1969 ha spazzato via la Senussia, la confraternita islamica che deteneva il potere in Libia e che costituiva l’unico sentimento originale libico. Il Colonnello l’ha sostituito con la Jamahyiria, lo “stato delle masse”. Masse che, secondo alcuni, oggi potrebbero voltargli le spalle.
Nonostante le violente proteste in alcune città e principalmente in Cirenaica, proprio dove la Senussia è forte e dove storicamente sono avvenute le sollevazioni più rilevanti contro il regime, Gheddafi però potrebbe cavarsela ancora. L’80% circa della popolazione è nata e vissuta sotto il regime di Gheddafi e non conosce quindi sistema diverso da quello della Jamahyria, lo Stato inventato da Gheddafi e basato nella sostanza sulla distribuzione delle rendita petrolifera. Questo rentier state ha comunque garantito condizioni di sviluppo sociale di testa tra i paesi dell’Africa del Nord con un 56esimo posto a livello mondiale secondo l’indice di sviluppo umano dell’Undp.
Certo, non esiste libertà o ne esiste troppo poca. La battaglia tra riformisti e vecchia guardia all’interno del regime ha prodotto per ora solamente poche espressioni di dissenso, quasi mai indirizzate contro il Colonnello, ma il più delle volte contro il governo. Gheddafi ha abilmente sfruttato queste fratture politiche per giocare il ruolo di federatore tra le parti, dosando aperture e chiusure ed evitando l’ascesa di figure che potessero essergli concorrenti. In questo cinico gioco sono entrati anche due dei numerosi figli del Leader: Saif, il riformatore educato alla London School of Economics, che ha capo della sua fondazione guida le speranze di cambiamento del paese, e Mutassim, il consigliere alla sicurezza nazionale, che accompagna il padre nelle uscite all’estero ed è il garante della stabilità del regime. Nessuno dei due, tuttavia, appare dotato della presa del padre sul paese, a cominciare dal controllo clientelare dei clan.
L’obbiettivo di Gheddafi rimane oggi quello di sempre: la conservazione del potere. Negli ultimi anni ciò è sembrato ottenibile con una crescita economica che gli permettesse ancora una volta di accreditarsi come “guida” del suo popolo. Tuttavia, le riforme volte alla differenziazione economica e alla privatizzazione (con licenziamenti di massa dal settore pubblico) non sono coincise con un corrispettivo sviluppo industriale che potesse assorbire e compensare i traumi della revisione della struttura del paese. Priva di tecnologia e know-how, arroccata in una burocrazia farraginosa e corrotta, la Libia attraversa una fase di transizione difficile. Il regime, oltre alla repressione, dispone di strumenti di soft-power molto preziosi per “corrompere” la popolazione (come argomentato in un articolo de Linkiesta di ieri). I pressi alti del petrolio sembrano aiutarlo. Tuttavia il ritorno ad una distribuzione della rendita sotto forma di regali ai cittadini dimostra che Gheddafi percepisce come reale il propagarsi della rivolta mediorientale.
In questi giorni il Leader si è aggrappato all’anelito rivoluzionario verso una società diversa, come auspicata nel Libro Verde da lui scritto. I richiami alla “democrazia diretta libica” non sono fini a se stessi. Anzi, dopo la rinuncia al “nemico esterno”, identificato a seconda delle circostanze nell’Italia colonialista o nell’America imperialista, questo sentimento è rimasto come fonte principale di legittimità del regime.
Anche i paesi occidentali e l’Italia in particolare sanno che dopo il suo regime ci sarebbe solo il vuoto di potere. In questo la Libia è molto diversa dalla Tunisia e dall’Egitto. Qui non esisterebbe nessuna transizione moderata e lenta, nessun modello turco da auspicare o emulare, nessuna forza politica alternativa. Ci sarebbe solo il caos.
* ricercatore Ispi