Milano. «Fini deve dimettersi da presidente della Camera. Deve trasmettere un segnale forte, di cesura, trasparenza, coerenza». Giuseppe Scinica è un missino della prima ora. Del partito di Almirante ha – suo malgrado – assistito al dipanarsi dell’intero iter: ha digerito la svolta di Fiuggi nel ’95, così come quella del predellino, nel 2009. A Milano si era iscritto al circolo Gianfranco Fini per Milano, per poi uscirne in disaccordo per alcune posizioni che il partito sembrava aver preso: dall’affiliazione a Casini, fino all’ipotesi di un patto con pezzi del Pd. Oggi, come militante ma non più iscritto, è alla tre giorni milanese dell’Assemblea Costituente con cui Futuro e Libertà si struttura in partito. Alla fiera di Rho Pero non è l’unico a lamentarsi e a chiedere che Fini si dimetta dalla carica istituzionale.
Curiosando nel padiglione 18, tra i primi delegati giunti per il Congresso, i malumori convergono. Dai circoli laziali a quelli meridionali (in testa la Calabria), cioè dal grosso della base di Fli, si chiede un gesto forte: dimissioni e totale dedizione al partito. In realtà, qualche scontento degli iscritti ha già generato risultati più che visibili: dal simbolo di Fli è sparito il nome del leader. Non più “Fini, Futuro e Libertà”, ma “Fli, Futuro e Libertà”. Al congresso, le diciture campeggiano una accanto all’altra perché «non c’è stato tempo di cambiare tutti i cartelloni».
Ma quello delle dimissioni non è un desiderata espresso unicamente dal basso. Anche gli uomini “di incarico” la pensano allo stesso modo. Fabio Mastroberardino, responsabile nazionale dei giovani universitari Fli, e Pietro Piccinetti, responsabile per l’organizzazione di Fli Lombardia, lo ammettono: «Dovrebbe dimettersi, ma non lo convinceremo mai».
Ci si chiede chi è che davvero suggerisca al leader le strategie politiche e – in modo particolare – chi decida, nel partito, la comunicazione. Tra la folla di giornalisti, si è levata, in questa prima giornata di congresso, un’unica voce: «Mai visto nulla del genere». In un primo momento i cronisti sono stati invitati a salire sulla ripida quanto precaria collina di “prato vero” (di veltroniana memoria e copyright della regia affidata ad Alessandro Mariottini: «C’è un grande prato verde dove nascono speranze») per assistere a una conferenza stampa piuttosto sui generis. A qualche metro di distanza, da un palco, l’apparato (microfonato) Urso-Ronchi-Bocchino procedeva a una conferenza che aveva tutta l’aria di essere, più che altro, un comizio. In angoli diversi della sala, invece, si è potuto assistere al miracolo di interviste plurime e divergenti: mentre un Ronchi dichiarava «Mai accordi con la sinistra», Granata apriva: «In una situazione di emergenza potrebbe anche esserci un’alleanza che vada oltre il polo della nazione».
Nel frattempo, a voler sfidare la pigrizia e decidere di spostarsi nell’area interviste della sala stampa, Bocchino, da una giungla di microfoni, si esibiva nell’esercizio diplomatico di fare sintesi di divergenze assortite, mettendoci una bella pezza: «Non c’è nessuna frattura interna, il partito nasce compatto e avrà linea unitaria». Ah, e sarebbe? «Quella indicata da Fini». Una soluzione, questa, che ribadiva anche Piccinetti: «Siamo qui apposta perché il presidente ci indichi una direzione». Di Casini, manco a parlarne. Più che un tabù, a chiedere di lui, sembrava di pronunciare una bestemmia. Nessuno, in verità, lo tollera più di tanto: «Per votare lui, allora esco dal partito» sembra la linea comune della base. Bocchino risponde che il tema «non è all’ordine del giorno». Lontano dai microfoni, Piccinetti confidava: «Stiamo già facendo una figuraccia». Prima che Fini dal palco annunciasse «una primavera politica per l’Italia».