Fischi alla prima. Alla Scala è una consuetudine, e forse il timore di riceverli non di rado indebolisce le difese immunitarie degli artisti. Il forfait – causa influenza da «contagio di natura virale» – dato poco fa da ben quattro cantanti alla Tosca di Giacomo Puccini, che ha debuttato questa sera nel teatro milanese, potrebbe essere un segnale d’allarme.
C’è senza dubbio il problema dei fischiatori di professione: quelli che arrivano la prima sera, fischiano, ottengono qualche notizia negativa per il teatro scaligero sui giornali del giorno dopo, e non si fanno più vedere. Meglio quindi aspettare il responso anche del loggione vero. Quello che fa la fila tutti giorni e in molti casi – inclusa l’ultima doppietta verista (Cavalleria Rusticana e Pagliacci), a gennaio, diretta da Daniel Harding – corregge o rovescia le impressioni dell’apertura. Intanto, la lunga serie di disdette che continua a falcidiare i cartelloni scaligeri mostra come i cantanti amino sempre meno Milano, un teatro non indispensabile per la carriera, dall’acustica ingrata e che espone a probabili contestazioni, per di più generosamente amplificate dai media.
Al di là del risultato di Tosca emergono dunque due questioni di fondo: la credibilità nella gestione del repertorio italiano e la responsabilità musicale. Mettere in scena l’opera italiana è l’impresa più difficile, non solo per la Scala, ma per tutti: mancano cantanti e registi, e i direttori validi sono pochi. Nel complesso il teatro contemporaneo risolve benissimo la complessità simbolica dell’opera del Sette e del Novecento o di Wagner, assai meno le convenzioni del belcanto o la spietata letteralità della drammaturgia di un Giuseppe Verdi.
Anche alla Scala, il problema era ben vivo già prima dell’era dell’attuale sovrintentende Stéphane Lissner: la svolta neoclassica degli ultimi anni di Riccardo Muti, sublime e noiosa come il Paradiso, si spiega anche con i fischi (meritati o meno) che avevano accolto opere come Vespri siciliani, Don Carlo, Ballo in maschera e Trovatore. In quegli anni però un manipolo di direttori carismatici come lo stesso Muti, Zubin Mehta, Lorin Maazel e George Prêtre – tutti ultrasessantenni, tutti costosissimi e tutti rappresentati almeno per una parte dell’attività dal sulfureo agente Valentin Proczynski (il più famoso e discusso nel suo settore) – garantivano interpretazioni spesso di prestigiosa routine ma sempre di rispettabile ascendenza toscaniniana.
Il fallimento del tentativo di estendere l’influenza di Proczynski sulla Scala imponendo Mauro Meli come sovrintendente ha contribuito, insieme al fattore anagrafico, ad aprire il teatro alle grandi agenzie internazionali come Askonas Holt (che rappresenta tra gli altri Abbado, Barenboim, Chung, Harding, Rattle e Ticciati) o Img (Bychkov, Denève, Jordan, Luisotti, Pappano, Wellber).
Nel dopo Muti l’entusiasmo per i cosiddetti baby direttori, giovani talentuosi cresciuti più sul repertorio sinfonico che nella buca operistica, ha contagiato tutti, spingendo nell’angolo la generazione dei 40/50enni, ancora legati ad un’immagine del maestro ormai in declino: musicisti milanesi come Riccardo Chailly e Daniele Gatti hanno certamente pensato di poter avere un ruolo importante e sono stati delusi, Myung-Whun Chung si è allontanato polemicamente e Antonio Pappano, il brillante direttore del Covent Garden di Londra e della Santa Cecilia di Roma, sembra un’ipotesi mai presa davvero in considerazione.
Oggi, dopo una fase felice in cui il Teatro oltre ad aumentare la produttività, ha vissuto artisticamente di un’apertura internazionale (e generazionale) auspicata da almeno un decennio e della soggiogante personalità intellettuale e musicale di Daniel Barenboim, il malcontento comincia a farsi sentire a Milano e nel consiglio di amministrazione, presieduto dalla sindaca Letizia Moratti con la partecipazione del berlusconiano Bruno Ermolli e di banchieri come Corrado Passera (Intesa Sanpaolo), Massimo Ponzellini (Bpm) e dell’a.d. dell’Eni, Paolo Scaroni. Barenboim, che porta il titolo un po’ vago di “direttore scaligero”, ha diretto la prima del 7 dicembre e tornerà solo per il 7 dicembre prossimo. Le sue interpretazioni verdiane sono state interessanti ma non hanno lasciato il segno, e il fatto che i due contratti discografici appena firmati con DG e Decca non includano incisioni con la Scala suscita perplessità. Barenboim dopotutto è direttore musicale della Staatsoper di Berlino e della Divan Orchestra, e non intende rinunciare a fare il pianista.
Il travolgente talento di Gustavo Dudamel, classe 1981, si appanna un po’ quando deve fare i conti con i mille impicci del palcoscenico. Dudamel, strappato alla Askonas Holt dall’ambizioso agente Mark Newbanks, potrebbe essere nominato direttore principale ospite con il sostegno determinante dell’orchestra, ma è legato alla Los Angeles Philharmonic da un contratto appena rinnovato fino al 2019 e resta direttore dell’Orchestra Bolívar in Venezuela. Accanto al “direttore scaligero” e al “direttore ospite” manca insomma il direttore principale, un musicista di professione che si assuma la responsabilità del livello artistico, affronti il nodo del repertorio italiano preparando e accompagnando i cantanti e gestisca il rilancio dell’immagine di un teatro praticamente assente dal mercato discografico (già dai tempi di Muti, in verità) e dal panorama dei nuovi media. Un musicista per cui la Scala sia inequivocabilmente il primo lavoro.
Quando Riccardo Muti fu allontanato dal Teatro furono in molti a prevedere un rapido declino dell’orchestra. L’orchestra ha sostanzialmente tenuto, a onore dei musicisti e del lavoro fatto da Muti in vent’anni, ma non si può parlare di un progresso. L’Italia resta priva di una compagine di livello davvero internazionale ma oggi è Santa Cecilia e non la Scala a mostrare più lucidità e ambizione anche in campo operistico, accumulando incisioni con le migliori voci in circolazione.
I candidati più ovvi alla direzione musicale hanno tutti qualche controindicazione. Daniel Harding mostra sempre più personalità, ma le sue possibilità nelle grandi opere di Verdi restano da sondare. Riccardo Chailly, che ha recentemente raggiunto Abbado e Maurizio Pollini nell’olimpo delle classifiche pop, ostenta soddisfazione per la sua posizione a Lipsia e disinteresse per l’opera, oltre ad avere modi meno accomodanti di quanto sembri. Gatti, nonostante l’accoglienza tempestosa al suo Don Carlo e alcuni insuccessi internazionali, resta un verdiano di rango, come ha dimostrato il suo applauditissimo concerto di Natale alla Scala, seguito da raccolta di firme dei sostenitori. Anche lui, carattere non facile. Sorride di più Antonio Pappano, maestro onnivoro e gran preparatore d’orchestre e cantanti, che tuttavia sembra felice al Covent Garden di Londra (a parte una recente polemica sul suo notevolissimo onorario) e alla Santa Cecilia.
A Milano i nemici dell’orchestra giurano che i musicisti non vogliono il direttore musicale perché ambiscono ad una perenne ricreazione, e gli avversari del sovrintendente rispondono che è proprio Lissner a non volere una figura che limiterebbe il suo potere sul teatro e minerebbe la posizione di Barenboim. In realtà, schermaglie polemiche a parte, la matassa è oggettivamente intricata.
Tuttavia Muti è in esilio da sei anni (a proposito, non varrebbe la pena di fargli una telefonata?) e la scelta di un successore che provi a rendere alla Scala l’orgoglio non di rappresentare la tradizione italiana ma di farla, come è stato nei giorni migliori della sua storia, non è rinviabile a lungo.