Palermo. «Non possiamo dare di più». I produttori di Rosarno spiegano che la paga per i raccoglitori stranieri, di 20- 25 euro, non può aumentare. I loro colleghi pugliesi, siciliani e campani dicono più o meno la stessa cosa. L’agricoltura è in crisi e di conseguenza i salari sono bassi. Ma le cose stanno veramente così? Il sistema agricolo meridionale tocca punte di eccellenze, ma è vittima di un meccanismo che vede filiere lunghe, con passaggi inefficienti o estorsivi: dal trasporto egemonizzato dal gommato dei casalesi fino ai mercati generali come quelli di Milano e Fondi, infiltrati da camorra e ’ndrangheta. Oppure le forniture, imposte a prezzi maggiorati dalla criminalità fino alle guardianie, caporalato e lo sfruttamento dei lavoratori migranti in nero.
A riaccendere i riflettori sulla nuova questione meridionale è la Cgil che ha lanciato la campagna “Stopcaporalato”, a sostegno della proposta di legge redatta dalle due organizzazioni sindacali Flai e Fillea per rendere il fenomeno un reato perseguibile penalmente.
Attualmente, infatti, questo crimine, particolarmente diffuso in agricoltura e in edilizia, in cui sono coinvolti centinaia di migliaia di lavoratori, soprattutto migranti, privati di ogni diritto e ridotti in schiavitù, viene punito con una sanzione amministrativa di appena 50 euro. Secondo i dati della Cgil i lavoratori regolarmente impegnati in agricoltura sono 1.037.000 e iscritti negli elenchi anagrafici dell’Inps. A questi però si aggiungono gli oltre 400mila lavoratori stranieri che vivono sotto la guida dei caporali e 600mila in condizioni di assoluto degrado, in alloggi di fortuna e in mezzo alla terra. Il 90% del lavoro nero è presente nelle regioni del Mezzogiorno, il 50% al Centro e solo il 30 nelle regioni del Nord. Le nuove frontiere del lavoro nero, infatti, sono l’Emillia Romagna e la Toscana.
Sicilia: il caporalato è femminista. Il caporalato è storia nell’agricoltura del Sud, ma a cambiare la forma hanno contribuito le donne. A Rosolini, a pochi chilometri da Cassibile e Pachino, importanti centri agricoli nel siracusano il caporalato è rosa. Sono donne che gestiscono altre donne. Guadagnano circa 5mila euro l’anno in più e lavorano sette giorni su sette, per conto dello stesso datore di lavoro delle sfruttate. Il metodo, in barba al femminismo francese, è mutuato dai colleghi uomini. La mattina delle caporali inizia alle quattro. Un pulmino carica venti ragazze di origine rumena per portarle nei campi a raccogliere i noti pomodorini di Pachino o le zucchine nei tunnel, piccole serre alte 80 centimetri.
Quando piove, però, le caporali si rivolgono al sindacato per chiedere assistenza. «È venuta una lavoratrice-caporale – racconta Enzo Pirosa segretario della Camera del Lavoro locale – che voleva aiuto perché le braccianti dell’est non volevano lavorare a causa del fango che si era formato nei campi, per via maltempo. Ha spiegato di avere affittato una casa dove ospitava le ragazze straniere. Siamo intervenuti e bloccato lo sfruttamento. Abbiamo però un’altra paura: quella dello sfruttamento sessuale». Come accade a Vittoria nel ragusano. Importante centro con il più grosso mercato agricolo meridionale. «Le donne – ha denunciato di recente il sindacato – subiscono spesso anche lo sfruttamento sessuale, oltre a quello lavorativo». Qui, terra di eccellenze, come l’unico Docg, il Cerasuolo, le donne rumene lavorano nelle campagne per 15 euro al giorno, i nero e senza tutele. Sono le new comers e quindi costrette a pagare il costo dell’abbassamento della manodopera per accaparrarsi il lavoro. A Vittoria, infatti, lo scontro è anche tra etnie differenti. «Sono in Italia dal ’90 – spiega Alì, marocchino che vive a Vittoria – ma ormai non riesco più a lavorare. Noi pretendiamo almeno 40 euro al giorno ed essere ingaggiati per avere poi la disoccupazione, mentre i rumeni lavorano per 15-20 euro. Per questo non ci vuole più nessuno nelle campagne. Preferiscono i rumeni. Costano meno e lavorano di più».
A pagare il prezzo di questa filiera malata sono soprattutto le donne, protagoniste dei cosiddetti “festini agricoli”. Sono delle vere e proprie feste organizzate dai produttori che «pagano 10 euro la prestazione delle ragazze straniere che di giorno lavorano nelle campagne». Così spiega Beniamino Sacco che gestisce un centro per 70 migranti. Mentre nel nisseno, capitale del carciofo violetto senza spine, lavorano solo le più carine. Non c’è il caporale, ma è lo stesso datore di lavoro che sceglie un gruppo di lavoratrici, tutte rumene, sulla base delle ragazze più avvenenti. Il gruppo dei 15 però rimane solo pochi giorni nell’azienda, per poi essere rivenduta a quella successiva. La paura è quella di evitare una rivolta come a Rosarno.
Calabria, i migranti in rivolta. Rosarno ha segnato lo spartiacque. C’è un prima e un dopo. L’elenco dei beni confiscati e assegnati al Comune di Rosarno è formato da 16 voci, per metà sono terreni agricoli per un totale di 58 metri quadri. In una recente intervista il procuratore di Palmi, Giuseppe Creazzo, ha spiegato che «i capitali illeciti devono essere introdotti nell’economia ordinaria per incrementare i profitti». Sfruttamento, tratta e riduzione in schiavitù sono le tre costanti dell’economia calabrese. Le arance della Piana di Gioia Tauro sono vittime di un livello molto basso di cultura d’impresa, basta guardare all’organizzazione della raccolta. Il giorno inizia sempre alle quattro del mattino sulla “nazionale”. Il caporale, della stesso paese dei migranti, raccoglie la manodopera. Il commerciante crea le squadre. Quando non sono del tutto in nero, i lavoratori formalmente sono assunti per 10 giorni l’anno, capita solo con i bulgari e i rumeni. Gli africani non vengono mai assunti. La paga media è 25 euro, per 12 ore di lavoro, mentre il cottimo è di un euro a cassetta. Uno dei braccianti è incaricato di misurare le cassette. Il proprietario si è già tirato fuori: ha venduto sull’albero il frutto pendente. Il resto è sotto gli occhi di tutti. Dopo la rivolta è arrivata l’inchiesta “Migrantes”, un’operazione della Procura di Palmi che coinvolge numerosi caporali, gran parte maghrebini, e anche parecchi imprenditori agricoli del luogo.
La Puglia e il pomodoro. Il caporalato pugliese è presente in tutta la regione. Il fronte più caldo, però, è quello della Capitanata, dove tra luglio e agosto si svolge la raccolta del pomodoro. Si segnalano, però, anche le province di Brindisi, Lecce, Bari e Taranto, dove per tutto l’anno vengono regolarmente occupati a nero e sotto caporalato lavoratori sia italiani che stranieri. Il percorso è sempre lo stesso. Un caporale che porta i lavoratori migranti nelle terre di San Severo e dintorni del foggiano. Ci sono solo 60 giorni a disposizione per raccogliere i pomodori, caricarli sui cassoni, imbarcarli sui camion e spedirli nei mercati o alle industrie di trasformazione. Tutti lamentano la mancanza di strutture in zona: è stata aperta una fabbrica, ma tra Salerno e Caserta ci sono circa 50 aziende a cui arrivano i pomodori pugliesi. Il resto va a finire in Emilia Romagna dove esiste un’economia che i sindacalisti definiscono «meccanizzata e legale».
Il cassone, diffuso in tutte queste campagne, è l’unità di misura di tre quintali che segna i ritmi del cottimo. «Mi pagano 3 euro per ogni cassone di pomodori che riesco a riempire – spiega Rabat, 24 anni che da un mese dorme nella Tendopoli fatta dagli stessi migranti nelle campagne – Lavoro due giorni su dieci e mangio quando posso e quello che riesco a trovare nelle terre dove lavoro. Il mio è un continuo viaggiare, come un bisonte che segue la mandria. A maggio vado a Cassibile per la raccolta delle patate, a ottobre mi sposto ad Alcamo dove si raccoglie l’uva, mentre a dicembre a Rosarno per raccogliere le arance. Sono stato spesso a Schiavonea, guadagnavo 30 euro per 12 ore di lavoro ma avevo una stanza e tutti i soldi li usavo per l’affitto. Pensavo che l’Itala fosse diversa. Nel mio paese non riuscivo a dormire, qui dormo per passare il tempo». In Puglia la stima del lavoro nero in agricoltura riguarda più di un terzo della manodopera, un’evasione contrattuale di oltre il 50-60%, cioè buste paga fatte in regola, ma a salari ridotti del 70 per cento. Si producono 2 milioni e 500 mila tonnellate di pomodoro e le imprese usano le braccia anziché le macchine.
Una filiera malata. «La buona impresa deve essere legata al buon lavoro» spiegano le organizzazioni sindacali. Il viaggio nelle campagne del Meridione non mette soltanto in luce le spaventose condizioni dei lavoratori stranieri, ma anche l’assoluta inadeguatezza del ceto imprenditoriale. «Operatori economici di livello basso – spiegava durante la campagna Oro Rosso Salvatore Lo Balbo, già segretario della Flai nazionale – poco o nulla propensi a rispettare norme, anche basilari, non inseriti in un tessuto economico che ormai è quello della globalizzazione dei mercati. Quasi sempre rimasti a un’agricoltura primitiva, divisi e diffidenti. Accettano con fatalismo imposizioni e angherie da feudalesimo, trascurando ricerca e sviluppo. Nel Sud siamo a una “jeeppizzazione” delle campagne, che è quello di pensare solo allo status symbol. Il problema, dunque, è il prodotto senza nome e cognome. Non vende, anche se è di alta qualità».
Mentre, come spiega Carlo Petrini di Slow Food in Voi li chiamate clandestini, «siamo al punto che andrebbe bene il commercio equo e solidale per i nostri contadini. Dal dopoguerra a oggi – si legge in una nota – il settore non è mai stato così in crisi. Si pensi che un quintale di grano viene pagato tra 13 e 15 euro, un prezzo più basso di 20 anni fa, quando ne costava 25. Solo nell’ultimo quinquennio ha perso il 30 per cento». Un quadro drammatico se si pensa che di mezzo c’è stata l’inflazione dei costi di produzione, come rilevano le associazioni di categoria: «Oggi produrre un ettaro di grano a un contadino costa 900 euro, mentre ne ricava 600». La presenza della criminalità organizzata è ingombrante ed evidente in alcune aree, ma fa sentire il suo peso sull’intero sistema. Molti anni fa, Arlacchi scriveva: «Ciò che i giornalisti superficiali chiamano organizzazione mondiale del crimine, non è altro che l’insieme di relazioni di parentela e di affari vigenti tra piccoli nuclei consanguinei e compaesani provenienti da zone ben individuabili della Calabria».