«Acquisire azioni delle società di calcio può senza dubbio essere un affare», assicurava Sergio Cragnotti. L’allora patron della Cirio e della s.s. Lazio non era solo ad avere questo genere di certezze. Quando in Italia si cominciò a parlare di calcio quotato gli entusiasti erano tanti. Walter Veltroni, il manager della Pilkington Paolo Scaroni (oggi all’Eni), Adriano Galliani del Milan, il fiscalista Victor Uckmar. Persino Nerio Nesi, allora responsabile economico di Rifondazione comunista si mostrava favorevole al «cambio di mentalità», solo per citarne alcuni.
Per una singolare coincidenza il quindicesimo anniversario del decreto legge 435, che nel 1996 ammise lo scopo di lucro per società calcistiche, potrebbe coincidere con il primo ritiro dalla Borsa di un club che a suo tempo si era quotato. La cronaca delle prossime settimane ci dirà infatti se il 67% del capitale della Roma Calcio, attualmente in mano alla famiglia Sensi e alla banca Unicredit, passerà alla cordata di investitori americani guidati da Thomas Di Benedett. E se sarà così, salvo espedienti volti a eludere la legge, scatterà l’obbligo di lanciare un’offerta pubblica obbligatoria.
Se è facile intuire che il cuore dei tifosi gioisca per una nuova proprietà pronta a mettere risorse fresche per il rilancio della squadra, già da ora appare chiaro che nemmeno l’Opa riuscirà a sanare le ferite del portafoglio degli investitori. Il prezzo offerto dagli americani, stando a indiscrezioni smentite dalla società, sarebbe inferiore di circa il 20% ai corsi attuali. Anche ipotizzando un’offerta pubblica in linea con le quotazioni correnti (circa 1,2 euro), rispetto al prezzo di collocamento di 5,5 euro per azione – con cui l’As Roma debuttò in Borsa nel maggio del 2002 – il crollo è superiore al 78 per cento. Gli unici a guadagnarci, a parte gli intermediari, sono stati gli speculatori pronti a fruttare giornate anomale, mentre nell’ultimo triennio il controvalore delle azioni scambiate è stato quasi sempre inferiore a un milione di euro.
Per i tifosi di Totti, l’incontro fra calcio e Borsa non ha dunque prodotto i risultati che quindici anni fa ci si aspettava. Del resto, le vicende della Lazio non sono tanto diverse da quelle dei giallorossi, né nelle performance né nelle ricapitalizzazioni che è stato necessario varare nel tempo per evitare il crac. Persino la blasonata Juventus è stata avara di soddisfazioni: dal collocamento a 3,7 euro per azione a fine 2001 è scivolata fino agli attuali 0,87 euro (-76%), sia pure vantando, unica nel mondo del calcio italiano quotato, la distribuzione di un dividendo a tutti gli azionisti.
Eppure l’approdo del football professionistico in Borsa aveva avuto profeti d’eccezione. Nel lontano 1993 il fiscalista Uckmar, presidente della Commissione di controlllo della Federcalcio (la Covisoc), criticava la legge che impediva alle società per azioni sportive di distribuire utili: «Dobbiamo essere realisti e non nasconder più lo sport dietro un paravento ipocrita di purezza dilettantistica. Le società calcistiche devono essere attività di profitto». Così «attirerebbero nuovi capitali». E prefigurava «una squadra di calcio italiana quotata in Borsa: non credo sia un’ipotesi da fantascienza».
Altro che fantascienza. Nel 1998 la Lazio, all’epoca controllata dalla Cirio del finanziere Cragnotti, varca i recinti di Piazza Affari. Lo scenario delineato da Uckmar diventa realtà: meglio, un incubo per tutti quei tifosi pronti a credere che la “fede calcistica” possa andare a braccetto con l’investimento finanziario. Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza la fattiva collaborazione della politica e dei tecnici di grido.
Oltre a Uckmar, il vicepresidente del Consiglio Walter Veltroni, che nel 1996 fu determinante nel varo del decreto legge che ammetteva il fine di lucro nelle società calcistiche. E poi l’amministratore delegato del Milan Galliani, che addirittura minacciava di andare a quotarsi all’estero se la Consob non avesse derogato alla regola dei bilanci in attivo da almeno un triennio. Il Milan, peraltro, non si è quotato né in Italia né all’estero. E ancora: Umberto Agnelli, presidente della Juventus, l’allora commissario straordinario della Federcalcio Raffaele Pagnozzi, Giuseppe Gazzoni Frascara del Bologna, che ambiva ad arrivare per primo a Piazza Affari, e persino Paolo Scaroni, all’epoca al vertice della multinazionale inglese Pilkington, che da neopresidente del Vicenza prometteva il traguardo della Borsa nel giro di pochi mesi. Solo pochi di quei progetti sono divenuti realtà, ma tutti sarebbero probabilmente rimasti sulla carta se la Consob non avesse deciso di allentare il rigore, consentendo l’ammissione a quotazione di società per azioni che, al di là dell’attività svolta, non avevano i conti in regola.
L’illusione di tutti fu che, sotto lo stimolo della Borsa, le squadre avrebbero potuto “monetizzare” la passione dei tifosi, trasformando questi ultimi in investitori, conferendo solidità ai propri propri bilanci. Un’illusione appunto. A cui pochissimi seppero resistere. Antonio Rosati, dirigente della Consob, manifestò diverse perplessità, a dir poco profetiche: «Non può entrare in Borsa una società il cui prezzo è sensibile a fattori come l’infortunio di un calciatore o un gol, il titolo avrebbe oscillazioni troppo forti. Diverso sarebbe il discorso di una holding con business articolato nella quale il calcio rappresenti solo un settore». Un riferimento forse indiretto al business delle squadre inglesi, capaci di gestire in modo profittevole stadi di proprietà e merchandising. Ma quello che doveva essere una pre-condizione per la quotazione nell’eccitazione dell’epoca diventò invece un obiettivo rimandato alla post-quotazione, nell’illusione (la seconda) che anche l’Italia avrebbe seguito il sentiero tracciato dai football club britannici.
«Guadagnare da tifosi, in Gran Bretagna è possibile da anni e c’è chi ha ottenuto performance del 200 per cento», titolava nell’aprile 1997 il Corriere. Nell’ansia di imitare la City, si decide si applicare alle società di calcio la deroga alla regola dei tre bilanci in utile: «Ritengo che questa regola sarà cambiata», annuncia alcuni mesi dopo Tommaso Padoa-Schioppa, presidente della commissione di vigilanza del mercato, con riferimento alla regola degli ultimi tre bilanci in utile. A dicembre arriva la sventurata decisione: «Le peculiari caratteristiche dell’attività delle società di calcio in linea di principio non costituiscono ostacolo alla quotazione dei relativi titoli». La Borsa Italiana prontamente si adegua e il primo a trarne vantaggio è proprio Cragnotti: la sua Lazio si quota il 5 maggio del 1998, trascinando oltre 40mila tifosi-azionisti, da cui incassa 60 milioni di euro, di cui la metà finisce alla controllante Cirio (fallita nel 2002).
A parte il supporto in curva e in denaro, comunque, i vertici delle società di calcio non vogliono null’altro dai tifosi-soci-investitori. L’indifferenza, se non addirittura un esibito fastidio, verso i piccoli azionisti è la regola nel calcio quotato Piazza Affari. A cui è speculare una generalizzata «scarsa attenzione e disaffezione verso gli aspetti gestionali da parte del socio-tifoso», sottolinea Alfredo Parisi, presidente del Comitato piccoli azionisti della Lazio e fra i promotori della Federsupporter, costituita un anno fa per aggregare «interessati alla vita associativa sportiva nella duplice veste di piccoli azionisti o di sostenitori di società sportive».
Nessun rappresentante dei piccoli azionisti-tifosi ha mai varcato le soglie di un consiglio di amministrazione. Nessun presidente di società di calcio delle tre quotate ha mai pensato di abbassare il quorum di presentazione delle liste al punto da renderlo accessibile a una moltitudine di piccoli soci. Che difficilmente si aggregano, divisi come sono fra varie tifoserie.
Gli annali della cronaca calcio-borsistica registrano tuttavia un’eccezione. È infatti grazie a una denuncia presentata nel 2006 dai piccoli azionisti della Lazio, guidati da Parisi e dall’avvocato Massimo Rossetti, che parte l’istruttoria della Consob su una transazione per interposta persona che avrebbe permesso al presidente Claudio Lotito di superare il 30% del capitale eludendo l’obbligo di lancio dell’Opa. Due anni dopo la Consob accerta l’esistenza di un patto parasociale esistente dal 2005 fra Lotito e l’imprenditore Roberto Mezzaroma, ma la conclusione viene poi ribaltata dal Tar. Comunque, un primo, parziale risultato dell’esposto (è in corso la fase d’appello) è la condanna di Lotito a una multa di 65 mila euro e a due anni di reclusione per aggiotaggio e ostacolo all’attività degli organi di vigilanza, sentenziata dal tribunale di Milano il 3 marzo 2009. Di fatto, l’unico strumento per incidere è quello giudiziario, che può essere messo in moto solo se c’è un addebito da effettuare agli organi di governo della società», riconosce l’avvocato Giovanni Bizzarri, che per conto di alcuni azionisti dell’As Roma ha intentato un’azione di revoca dello scudetto 2009-2010 all’Inter. «Ma se tutto resta legato a un ambito di contenzioso legale, le società di calcio quotate rinunciano a un valore aggiunto portato dall’azionista-tifoso».
Per ora le associazioni di piccoli azionisti delle società calcistiche restano a metà fra la tifoseria e un comitato civico.Solo da ultimo stanno cercando di assumere una connotazione più strutturata. Salvatore Cozzolino, fra gli animatori del sito ju29ro.com, si è fatto promotore di un comitato che punta a presentare una lista per il rinnovo delle cariche sociali della Juventus. E non è il solo. Il mondo juventino ha invece partorito un’iniziativa che si dichiara manifestamente collaborativa con i vertici della squadra: Paolo Aicardi, che è anche presidente della compagnia assicurativa Incontra Assicurazioni (gruppo Fondiaria-Sai), «vuole dare un contributo serio e propositivo all’azionista di maggioranza per il bene della società» attraverso un’associazione di piccoli azionisti che già nel nome si rifà alla denominazione ufficiale del club. La speranza di Aicardi è un giorno, «grazie a una fiducia conquistata sul campo», gli Agnelli, gli storici azionisti di controllo, offrano un posto in consiglio ai piccoli soci, cooptando un esponente dell’associazione. Una speranza che magari un giorno si realizzerà. Come quella dello stadio di proprietà. Alla fine dell’estate, infatti, la Juve ne avrà uno tutto suo, costruito sulle ceneri del vecchio Delle Alpi. Per allora saranno passati dieci anni dalla quotazione della squadra bianconera.
«La quotazione delle società di calcio è stato e resta un errore», riconobbe nel 2009 Lamberto Cardia, presidente della Consob, durante incontro annuale con la comunità finanziaria. Un errore dei regolatori a cui – fatti i dovuti scongiuri per l’esito delle trattative romane – solo adesso il mercato ha iniziato a porre rimedio.