Quanti sono gli immigrati che realmente potrebbero arrivare dalla Libia?
È praticamente impossibile fare previsioni sul futuro. O meglio, le mie varrebbero quanto quelle del ministro Maroni. Ovvero, scientificamente nulla. Lui si è basato su un dato (due milioni di immigrati dall’Africa subsahariana presenti in Libia) che non ha nessuna base statistica, ma è il lato più alto della forchetta di una stima circolata in questi anni. E poi ha tarato nel 10% il tasso di quelli, tra loro, pronti a lasciare la Libia per l’Italia. Un valore del tutto soggettivo, arbitrario, che ha originato la previsione allarmistica di 200 mila profughi.
Se non si può ragionare sul futuro, di cosa possiamo parlare?
Del presente. Il grosso del movimento adesso è verso Tunisia ed Egitto. Io punterei su un dato più interessante del caos dell’immediato. Il Cairo afferma che gli egiziani che lavorano in Libia (anche qui, prendiamo i numeri con le pinze, perché mancano dati statistici affidabili) sono 900mila. Le loro rimesse erano fondamentali. Ci saranno dunque forti ripercussioni economiche e sociali.
E l’immagine del tappo che salta in Libia e dell’autostrada verso l’Italia che si apre per gli immigrati africani?
C’è un punto che mi sembra insensato in questo ragionamento. È vero che la Libia era una zona di attraversamento, una sorta di corridoio. Ma questo transito è impedito o fortemente disincentivato dalla situazione di conflitto. Certo non è incoraggiato. È vero che c’è anarchia, ma ci sono anche rischi di incolumità. Per cui il fattore di attrazione della Libia come Paese ponte dovrebbe realisticamente diminuire, e così i flussi dal sud e dal Corno d’Africa. Diverso il caso di quei forse due milioni di immigrati che sono già lì. Ma francamente, pur con tutta la realpolitik possibile, credo che dovremmo preoccuparci più per loro che per noi.
Rischiano grosso?
Sì. Vengono assimilati ai mercenari anche quelli che non hanno nessuna colpa, solo per il colore della pelle e grazie alla politica razzista degli ultimi anni di Gheddafi (che da buon trasformista, ha fatto seguire l’odio contro i neri al periodo di retorica sui «fratelli africani» e agli inviti di massa in Libia). La loro incolumità è a forte rischio e si dovrebbe fare qualcosa per garantirne la sicurezza, visto che non credo che le loro ambasciate abbiano la forza e i mezzi per rimpatriarli. Quanto al cosiddetto rischio che vengano da noi, il costo del viaggio è molto alto e raramente potranno permetterselo. Il quadro più realistico è che restino incastrati fra i due fuochi.
E i libici? Non fuggiranno anche loro?
Non avendo una tradizione di emigrazione è più difficile che il fenomeno sia di massa. Per chi non ha reti strutturate all’estero, la scelta di partire è meno conveniente, meno semplice. Ci si pensa due volte a fare le valigie se non si ha un cugino, uno zio da raggiungere. Un punto d’appoggio, insomma.
Ma in questa situazione chi scappa andrebbe trattato come immigrato clandestino o come richiedente asilo?
Mi sembra che ci sia una forte ipocrisia retorica da parte del governo. Quando il ministro Maroni afferma di voler dividere fin dall’inizio migranti economici da richiedenti asilo, si scontra con una realtà operativa che è molto più complessa delle parole d’ordine. Questa vicenda sta facendo emergere tutta l’ambiguità latente sia a livello italiano che europeo. Promettiamo allo stesso tempo emigrazione zero e di essere baluardo erto a difesa dei diritti umani. Due cose spesso non facilmente conciliabili, se, per esempio adesso, si procedesse a respingimenti in un periodo di conclamato conflitto aperto. Dovremmo forse sfruttare questa occasione per riaprire un dialogo serio sulle politiche di ingresso, visto che anche il tema delle espulsioni nei Paesi di origine è più che altro un esercizio di immagine politica. Con la Tunisia, per citare un caso, ha funzionato solo a corrente alterna e con poca efficacia, statisticamente parlando.