L’operaio massa ora suona il violino. O il trombone, o il clarinetto. Batte note e sforna concerti, attento a non perdere il ritmo del mercato: «Più suoni, più lavori – è la filosofia – e più lavori più guadagni». Semplice.
L’operaio col violino sta a Parma nell’antica, stimatissima, orchestra del Teatro Regio: quella che nel 1835 Niccolò Paganini laureò «la migliore d’Italia» e che oggi esporta nel mondo il nome di Giuseppe Verdi (che a Busseto, nel parmense, nacque nel 1813). Lavora sette giorni su sette e ha un contratto co.co.pro, come un qualsiasi operatore di call center: «Pronto, scusi, le interessa una Traviata?».
Attenzione, però. Qui nessuno vuol sentir parlare di sfruttamento o di precariato, concetti che il senso comune associa all’idea di lavoro a progetto. E nessuno dei 37 musicisti del Regio (cui vanno aggiunte altre decine di professionisti ingaggiati di volta in volta) se la prende coi tagli alla cultura perché – oltre che artisti – gli orchestrali di Parma sono pure padroni. Di se stessi.
Nel 2005 si sono costituiti in srl e, come ripete sempre Enrico Maghenzani, amministratore delegato dell’orchestra: «I ragazzi da noi hanno un contratto a progetto, è vero, ma tutti sono soci dell’azienda». È così per scelta, al Regio: nessun problema e molto orgoglio. Tutto quello che la formazione guadagna finisce nelle tasche dei suoi elementi, a seconda dell’importanza, certo. «Ma quello che conta», dice Maghenzani, «è il numero di prestazioni. Noi, per esempio, facciamo in sei mesi ciò che una qualsiasi orchestra stabile negli enti lirici (in genere quelle dei capoluoghi di regione, ndr) fa in un anno». Ma qualche stonatura, nell’apparente sinfonia, si avverte eccome, secondo la Cgil: «In realtà affiorano sofferenze e irregolarità contrattuali tra i professori del Regio – dice Silvia Avanzini, segretaria Slc a Parma – molti musicisti non le denunciano per timore di ricatti». Feroce è stato nei giorni scorsi lo scontro sui quotidiani locali, che hanno risollevato la questione: «I nostri contratti sono espressione della nostra volontà e sono redatti in base alle norme di legge», hanno risposto gli stessi musicisti alla Cgil.
Al Regio l’orchestra efficientista assicura l’intera stagione e il festival Verdi, che tanto sta a cuore a Maurizio Meli e a Pietro Vignali: il primo sovrintendente, il secondo sindaco di Parma e presidente della Fondazione Teatro Regio. Ma nello stesso tempo i “Pellegriner” (come qualcuno li ha ribattezzati dal nome del clarinettista Sergio Pellegrini, direttore artistico del gruppo) girano il mondo, ricevendo commesse dai principali teatri: «Siamo stati diretti dal maestro Riccardo Muti, da Jurij Temirkanov (ora direttore musicale della Fondazione parmigiana, ndr), da Michel Plasson». Non solo: «Da noi – aggiunge Pellegrini – sono passati molti dei migliori professionisti oggi sulla piazza, come la prima tromba di Santa Cecilia a Roma».
In un anno l’orchestra costa due milioni di euro a chi, via via, la ingaggia: di norma un milione al solo Regio e un milione ai teatri esteri che la convocano. «Nel 2010 – spiegano – il nostro fatturato dalla sola attività parmigiana è stato di 1,54 milioni di euro, ottenuto con sei mesi di lavoro, ma dandoci dentro». Quando si lavora 26 giorni al mese, anche se non sempre questo avviene, gli stipendi più robusti toccano anche tremila euro.
Ma c’è da sgobbare per il musicista co.co.pro. «Mica come fanno nelle formazioni stabili – dicono al Regio – che negli enti lirici ricevono una pioggia di finanziamenti dallo Stato godendo di privilegi in termini di orari ridotti di lavoro, indennità, tutele, rimborsi spese d’ogni genere». Il riferimento è alla riforma del 1996, che scisse la scena in due: da una parte gli enti lirici, trasformati in fondazioni, dall’altra i teatri di tradizione come – appunto – il Regio di Parma.
La differenza qual è? «È che nel 2005 per esempio – ha spiegato Maghenzani – le 14 fondazioni hanno ricevuto 243 milioni di euro dallo Stato per una media di 17 milioni a testa, mentre i 26 teatri di tradizione hanno ottenuto nel complesso 16 milioni». Ecco allora la risposta dell’orchestra più liberista d’Italia, l’unica del nostro Paese («ma all’estero il modello è ormai affermato»): diventare un’azienda, far da sé.
Usa proprio queste parole, Maghenzani: «Noi siamo un’azienda. E se solo la politica lo capisse, non userebbe il Regio una volta all’anno per farsi vedere in abito elegante alle prime. Qualche anno fa, per esempio, fummo ingaggiati per un milione di euro da un ente estero. Ebbene, la politica (che con Comune e Provincia, qui, è tra i soci fondatori, ndr) storse il naso quando le fu chiesto di pagarci un rimborso di 50mila euro. Un segno di miopia, perché in quel caso avremmo guadagnato 950mila euro».
Ma la Cgil insiste, puntando il dito sulla mancanza del contratto nazionale di categoria e di rivendicazioni tra i leggii del Regio: «La formazione di Pellegrini – attacca Silvia Avanzini, responsabile parmigiana del settore artistico del sindacato – pratica il dumping contrattuale, la condizione dei suoi musicisti non è affatto corretta e andrebbe al più presto regolarizzata». Ma Maghenzani e soci non ci pensano neppure: «Il mercato è il nostro unico riferimento – ripetono – la Cgil non s’è mai veramente occupata di noi». E poi basta con le chiacchiere. Da bravi artigiani della musica c’è da tornare a lavorare con la chiave. Non quella inglese, ma quella di violino…