Ma il federalismo è un’altra cosa

Ma il federalismo è un’altra cosa

Il decreto sul finanziamento dei comuni che si sta discutendo in questi giorni in Parlamento è un ottimo esempio di quanto sia deludente la cosiddetta riforma federale. L’ultimo testo, che risale al 27 gennaio, si può trovare sul sito dell’Anci, l’associazione dei comuni. Verrà probabilmente ulteriormente rimaneggiato, ma è quasi certo che i tratti di fondo rimarranno gli stessi. D’altra parte tali tratti sono molto simili a quelli contenuti nel decreto sul finanziamento delle regioni. 
Perché si tratta di una riforma deludente? Il federalismo fiscale è una buona idea se cambia gli incentivi dei politici, rendendoli più sensibili alle esigenze delle popolazioni governate. Perché questo accada gli enti locali devono avere ampia autonomia nel decidere le entrate e le spese e devono rispettare rigorosamente il vincolo di bilancio. Chi spende male e troppo, in rapporto ai servizi forniti, si troverà costretto a tassare di più e verrà quindi punito dagli elettori. Chi spende più di quello che introita deve essere cacciato per via amministrativa.

Rispetto a questo obiettivo teorico, la riforma fallisce miseramente. Così come avvenuto per il finanziamento delle regioni, il suo meccanismo principale resta l’individuazione di basi imponibili a livello centrale accompagnata dalla fissazione di aliquote sempre a livello centrale. Gli spazi per l’esercizio dell’autonomia tributaria, che è ciò che veramente rende responsabili gli amministratori locali verso i propri elettori, sono a volte molto contenuti e a volte inesistenti.
Prendiamo per esempio quella che è stata presentata come una delle innovazioni principali, l’introduzione della cedolare secca sugli affitti. Come funziona? Lo stato centrale decide che ora gli affitti, anziché contribuire a formare l’imponibile per l’imposta sul reddito, pagano una cedolare secca. Decide anche che la cedolare è del 21% (con eccezioni, ma non stiamo a farla lunga). Infine decide, e qui starebbe la grande decentralizzazione, che una quota del gettito di tale imposta verrà devoluta ai comuni, per l’esattezza i comuni in cui gli affitti sono pagati. Le percentuali della devoluzione sono di 21,7% nel 2011 e del 21,6% nel 2012 (e chissà quali acute pensate ci sono state per generare quella micragnosa differenza dello 0,1% tra i due anni).

In tutto questo, voi ci vedete qualche atto, qualche decisione, un qualcosa qualunque che possa essere fatta risalire alla responsabilità degli amministratori locali? Io no. Prima i comuni venivano finanziati con trasferimenti statali, a loro volta derivanti dalle imposte generali. Ora vengono foraggiati da imposte generali stabilite dallo stato centrale e poi trasferite ai comuni. Perdonatemi se non vedo la rivoluzionaria innovazione.
Lo stesso vale per la compartecipazione all’IRPEF. Anche qui l’imponibile è stabilito dallo stato centrale e l’aliquota pure, in questo caso il 2%. Poco meglio va per la rediviva tassa di soggiorno. Qui viene lasciata qualche discrezionalità in più, ma neanche tanta. Lo Stato si prende la briga di dire chi la può mettere e chi no (solo i capoluoghi di provincia e i «comuni inclusi negli elenchi regionali delle località turistiche», gli altri ciccia) e fissa il massimo a 5 euro per notte «da applicare secondo criteri di gradualità in proporzione al prezzo».

Il piatto forte della riforma però è la rinnovata imposta sugli immobili, che viene ora chiamata imposta municipale propria. In verità tale imposta dovrebbe entrare in vigore solo a partire dal 2014, quindi si possono mantenere seri dubbi sul fatto che verrà attuata nelle forme oggi presentate, ma su questo sorvoliamo. Come funziona la nuova imposta? Ormai la logica dovrebbe essere chiara. Un federalismo efficace richiederebbe semplicemente di lasciare gli immobili come base imponibile per gli enti locali, lasciando che essi determino ambito di applicazione e aliquote. Ovviamente la proposta in discussione fa tutto il contrario, intervenendo a gamba tesa ed escludendo la possibilità di tassare gli immobili adibiti ad abitazione principale.

La percentuale di famiglie che possiedono la casa in cui abitano è in Italia assai alta, intorno al 70%, per cui lo stato sta sottraendo ai comuni una parte cospicua della base imponibile. La logica peraltro qui veramente sfugge. Se l’obiettivo è quello di responsabilizzare gli amministratori, facendo loro sentire il fiato sul collo degli elettori che non desiderano avere tasse alte in cambio di servizi scadenti, come si può pensare di escludere la prima casa? Gli amministratori locali possono aumentare finché vogliono le tasse sulle seconde case e sugli immobili non di abitazione; in buona misura i soggetti colpiti dalla tassa non risulteranno essere elettori, con buona pace della responsabilizzazione.
Ma non c’è troppo da preoccuparsi. A un’interferenza dello stato centrale si può sempre porre rimedio con un’ulteriore interferenza. Infatti lo stato fissa centralmente l’aliquota della nuova imposta e limita le modifiche che i comuni possono effettuare, in aumento o in diminuzione. Anche questi limitati margini di manovra peraltro sono a rischio; l’esperienza recente ha dimostrato che lo stato centrale non ha alcun problema a bloccare imposte e addizionali riservate agli enti locali, se così ritiene opportuno.

Ciò che viene spacciato per grande principio federalista è quindi l’idea che l’imposta “resti sul territorio”. Per esempio, il 2% di IRPEF andrà quindi ai comuni nei quali risiedono i contribuenti. Ma la responsabilizzazione è nulla. Il 2% è deciso a Roma, e l’unica cosa che può fare l’amministratore locale è pregare di avere tanti pingui contribuenti sul suo territorio. O tante case date in affitto. O tante seconde case.
Questo è un peggioramento perfino rispetto al vecchio regime di finanza derivata in cui i finanziamenti arrivavano direttamente dallo stato centrale. Si introducono infatti sperequazioni, che possono risultare notevoli, tra i diversi enti locali senza nessun positivo effetto di incentivo sugli amministratori locali.
Ma anche qui c’è la toppa. Dato che alla fine la sperequazione rischia di essere eccessiva vengono previsti meccanismi di compensazione, a cominciare da un Fondo Sperimentale di Equilibrio che dovrà riequilibrare il gettito tra i comuni. I meccanismi esatti di funzionamento non sono ancora decisi. In sostanza, chi sentiva nostalgia delle belle risse di fine anno in cui gli amministratori locali si accapigliavano con il governo sulla gestione e ripartizione delle risorse non si deve preoccupare. Il copione andrà di nuovo in onda esattamente come previsto.

NoisefromAmerika 

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