La storia del Partito Democratico di questi ultimi anni assomiglia sempre di più a quella teoria secondo cui esisterebbero un’inflazione reale e un’altra percepita, quest’ultima dolorosamente subita dai cittadini. Un dislivello che s’attaglia perfettamente anche al Pd, che nella scienza dei sondaggi tiene botta con un 26 e rotti – neanche poi così distante da Berlusconi – ma che nel cuore del suo popolo di riferimento finisce letteralmente in cantina. Su tutto ciò, è lecito porsi una dolorosa questione: come mai, quando si parla del Partito Democratico, si prospetta solo la possibilità che possa perdere deputati senza invece mai guadagnarne?
Se il desiderio, in politica, è uno degli elementi più suggestivi, ci sarebbe da chiedersi perchè – oggi – nessuno vuole più diventare Democratico, non nel senso americano più aureo, ma in quello decisamente meno attrattivo della segreteria Bersani. A una questione che abbraccia soprattutto le passioni personali e politiche, andrebbe affiancata anche l’altra – più squisitamente di parte – che riguarda l’avversione (legittima) per il Cavaliere.
E qui sarà opportuno uno sforzo di sincerità: quanto di quel 26 e rotti è farina esclusiva di un percorso di crescita e quanto invece è da attribuire alle avventatezze del Presidente del Consiglio? Vi sembrerà forse paradossale introdurre un elemento di disturbo in presenza di un competitor come il premier che ha in completo dispregio le regole, ma vorremmo girarvi, cari lettori, un ulteriore, angoscioso interrogativo: quanto è democratico il Partito Democratico?
Un esempio di qualche giorno fa, quando si è consumata l’ulteriore divisione interna. Un paio di senatori, Sircana e Chiaromonte, hanno deciso di riparlare di immunità parlamentare, facendo proposte come si fa nei partiti liberali e riformisti. Come sapete bene, sono stati sotterrati dalle critiche, ben al di là della sostanza delle idee, in nome unicamente del totem Berlusconi.
A freddo, Silvio Sircana ci ragiona su: «Era semplicemente richiamarsi a quei principi che ispirarono i Costituenti, i quali immaginarono un elemento di equilibrio tra poteri». Sul grado di democrazia interna, l’ex portavoce di Prodi (peraltro uno dei tre senatori Pd che votarono contro il Trattato di Amicizia italo-libico) non ne vuole fare una questione personale, ma ammette che un probema c’è: «Il Pd è un partito oligarchico, poco democratico direi».
Se questa sensazione appartiene anche ai cittadini, e più di un sospetto c’è, il Pd è avviato a una morte lenta ma certa. Se la gente che è legata all’area del centro-sinistra, e dunque lontana da una visione proprietaria della politica, dovesse avvertire nitidamente che all’interno del suo partito si sta restringendo pesantemente il perimetro della libertà di pensiero, la reazione (sentimentale eppur razionale) sarebbe quella dell’abbandono.
Vorremmo qui ricordare un signore che di cognome fa Chiamparino, che un bel giorno di qualche tempo fa disse pubblicamente di essere disponibile a guidare il partito e poi, forse, il paese. Non se n’è saputo più nulla. L’altro giorno, cari lettori, uno come Pierluigi Battista ha scritto sul Corriere che se si candidasse lo voterebbe subito. E quando ci ricapita un’occasione così ghiotta?