Giurano di non aver niente a che fare con Julian Assange. Si definiscono come «un gruppo di giornalisti, attivisti e professionisti della comunicazione» con una conoscenza approfondita della bolla del policymaking europeo, e da poco hanno dato vita alla copia locale dell’ormai famosissimo WikiLeaks. Solo che questa volta la vittima della trasparenza totale anziché Washington potrebbe essere la Ue. Brussels Leaks, come dice la parola stessa, è infatti un sito di informazioni riservate, appositamente dedicato al dietro le quinte delle istituzioni europee, dove quotidianamente operano dai 15 ai 20 mila lobbisti. Un sito di soffiate, insomma, che promette di fare da intermediario nello scambio di quelle tanto preziose bozze di cui si nutrono i processi decisionali a tutte le latitudini, passando da una mano all’altra, da una cartella all’altra, o, in era digitale, da un file all’altro.
Brussels Leaks si presenta come un sito essenziale, in bianco e nero, provvisto di una mascherina dove le parti che lo desiderano possono caricare i loro documenti top secret in tutta sicurezza. Così almeno garantiscono i gestori del sito, ovviamente anonimi, che allegano anche alcune “dritte” tecniche per aggirare il Grande Fratello della rete. Una sorta di kit della spia fai da te, con link a siti come il britannico Spyblog, che si avvale della consulenza di cyber esperti per insegnare a navigare e operare in rete senza lasciare traccia.
«Siamo circondati da persone che lavorano per le istituzioni europee, le lobby e le associazioni di categoria, e anche le Ong, che vogliono far uscire informazioni. Sono spesso brave persone, che vedono che c’è qualcosa di sbagliato e vorrebbero farlo sapere, ma non vorrebbero per questo perdere il lavoro», racconta un fondatore di Brussels Leaks con apparente spirito di servizio in un’ intervista rilasciata allo European Journalism centre il 13 dicembre, poco prima di annunciare un periodo di silenzio e riflessione che non si è ancora concluso. L’avvento di Brussels Leaks ha lasciato abbastanza freddi gli addetti ai lavori. «Ormai questo mestiere non si fa più a colpi di soffiate», commenta Emanuele Calvario, membro del CdA di Reti, una delle società di consulenza nel lobbying italiane più in vista, che a Bruxelles opera tramite una rete di partner e associati. «Certo, vedere una bozza in anticipo può aiutare a capire cos’ha in mente un ministro, ma una strategia di lobbying efficace è fatta di ben altro. Innanzitutto di idee».
Scettico anche un rappresentante di Corporate Europe Observatory, Erik Wesselius: «Staremo a vedere», dice. «Per il momento mi sembra un annuncio affrettato, fatto per cavalcare l’onda di Wikileaks». Il ricercatore dell’organizzazione che fa da cane da guardia sull’operato delle lobby è scettico anche sulla modalità di intermediazione proposta dal sito. Brussels Leaks, infatti, non renderà pubblici sul sito i documenti che entrano in suo possesso, ma si limiterà a facilitarne lo scambio fra le parti interessate. Una domanda che a Bruxelles si fanno in molti è: ce n’era bisogno? Come ha commentato il corrispondente del Financial Times, Stanley Pignal, sul suo blog, «rimane da capire perché mai funzionari della Commissione europea – detentori delle informazioni più sensibili a Bruxelles – passerebbero informazioni attraverso un anonimo portale invece che al consueto network di lobbisti e giornalisti, che per la maggior parte hanno una discreta esperienza nel lavorare con questo tipo di documenti». Insomma, il sito degli zelanti comunicatori sembra proprio un intruso nelle consuete pratiche del settore.
«Dietro alla fuoriuscita di un documento c’è sempre un’agenda politica, e come sa bene chi fa questo lavoro, è fondamentale che il destinatario conosca le intenzioni del mittente», sottolinea Wesselius. «La presenza di questi intermediari renderà difficile rintracciare il mittente e capire il perché l’abbia fatto trapelare».
Senza contare che, anche dal punto di vista teorico, un attore come Brussels Leaks c’entra poco. «Essere sotto ai riflettori non sempre aiuta i meccanismi decisionali», spiega Justin Greenwood, professore di European Public Policy alla Robert Gordon di Aberdeen e al Collegio d’Europa, oltre che studioso dei meccanismi di lobbying. «Alcuni studi suggeriscono che i decisori adottano posizioni più rigide quando sanno di essere osservati, e questo risulta in un’impasse collettiva». Proprio quello che non serve alle istituzioni europee.
Questa “leaks”-mania, però, un effetto l’ha già avuto: ha resuscitato il dibattito sul giornalismo investigativo, messo a dura prova dall’ormai conclamata crisi dei media tradizionali. La fame di “leaks”, insomma sarebbe un modo del pubblico di reclamare quello che un tempo era un buon articolo di inchiesta. E se Brussels Leaks fosse proprio la trovata di un gruppo di giornalisti che hanno scoperto il modo per arrivare senza sforzo ad informazioni succose?