Aziza è una donna afgana della provincia di Balkh. Proviene da una famiglia povera di tessitori di tappeti. E’ analfabeta. Ha un figlio di quattro anni, Amaiadullah. Ogni mattina prende un pezzo di oppio puro dalla dispensa. Conservato come fossero biscotti. Il bambino lo mangia: «Altrimenti non dorme e non mi consente di lavorare». Un video della Cnn, alcune stimane fa, ha mostrato al mondo la tragedia di Aziza. Che è la tragedia dell’Afghanistan, il paese dell’oppio. Circa due milioni e mezzo di persone, per lo più contadini con le loro famiglie, vivono oggi del raccolto di oppio nel paese asiatico. Una condizione di povertà e disperazione, secondo le previsioni delle Nazioni Unite, destinata a rimanere invariata anche nel 2011. Perché gli sforzi compiuti dalla comunità internazionale per favorire colture alternative non hanno prodotto risultati significativi. E anche «l’offensiva dello zafferano», condotta nel secondo semestre del 2010 dal contingente italiano nell’ovest del paese, per ora sembra non pagare.
L’economia afgana dipende oggi, quasi esclusivamente, da due fonti di reddito: gli aiuti concessi dalla comunità internazionale e il traffico dell’oppio. Nel 1986 il paese asiatico produceva solo il 19% dell’oppio mondiale. Dal 2006 tale quota è salita al 90%. Nel 2010, il prezzo medio dell’oppio al momento del raccolto è stato di 169 dollari al chilo, con un aumento del 164% rispetto all’anno precedente. E nonostante il calo della produzione, dovuto a gelo, siccità, parassiti e malattie, il fatturato lordo per ettaro di oppio coltivato ha subito un incremento del 36%, fino a 4.900 dollari.
Secondo uno studio compiuto dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (Unodc), nel 2011 la coltivazione di oppio potrebbe far registrare un lieve calo. Dovrebbe essere così nelle province di Helmand e Kandahar che, pur nel trend negativo, continueranno comunque ad avere piantagioni estese, rigogliose e altamente produttive. Diversa la situazione nell’ovest dell’Afghanistan. A Farah e Nimroz si attende infatti un incremento moderato; lo stesso a Baghdis. Un aumento più significativo potrebbe esserci invece nella provincia di Herat, dove ha sede il comando della missione militare italiana. Per l’Onu esiste una spiegazione. «C’è una robusta e significativa associazione tra scarsa assistenza all’agricoltura e coltivazione di oppio. I villaggi che non hanno ricevuto assistenza produrranno più oppio di quelli che hanno ottenuto un contributo». Nell’area a responsabilità italiana, si tratta soprattutto della regione attorno a Bala Murgab nel nord e Shindand nel sud. E non è un caso che queste coincidono proprio con le zone a maggior rischio di scontri a fuoco per i soldati italiani. Dice l’Onu: «I villaggi delle aree meno sicure hanno una probabilità maggiore di coltivare l’oppio di quelli con condizioni di sicurezza migliori».
Proprio qui, insomma, i talebani sarebbero riusciti a convincere gli agricoltori a coltivare l’oppio e abbandonare coltivazioni legali e alternative: cereali, fagioli, cotone. E, soprattutto, zafferano. Da tre anni, il Provincial Reconstruction Team (Prt) di Herat, a guida italiana, è impegnato nella distribuzione di bulbi di zafferano, fertilizzanti e arnesi da lavoro. La richiesta è arrivata direttamente dal dipartimento dell’Agricoltura, dal dipartimento Anti-narcotici e dal Consiglio provinciale per lo sviluppo afgani. Il programma, messo a punto nel 2008, è nato sulla base di considerazioni strettamente economiche: si pensava che un ettaro coltivato a grano fruttasse 1.200 dollari, uno a oppio 4.500 e uno a zafferano fino a 12.000, sebbene servissero almeno tre anni prima di trarne profitto. Nella seconda metà del 2010 sono state distribuite circa 60 tonnellate di bulbi, destinate alla coltivazione di almeno 30 ettari di terreno. Un modo per cambiare l’approccio italiano basato fino ad allora, in primo luogo, sulla politica del «convincimento» e della «conquista dei cuori e delle menti».
Ma i risultati non sono stati quelli sperati. Per tante ragioni. La produzione, la lavorazione e il mercato dello zafferano dovrebbero crescere di pari passo, secondo gli esperti di Herat. Ma questo non è accaduto. E senza un appropriato processo di trattamento, lo zafferano perde colore e profumo. Non è più vendibile all’estero. E non avendo grande mercato in Afghanistan, non rende e non conviene. Molti afgani, a cui sono stati promessi aiuti economici mai arrivati, restano convinti del fatto che con l’oppio si guadagni meglio che con lo zafferano. Tanto più che i trafficanti locali sono fortemente impegnati nell’esportazione di morfina ed eroina verso la Repubblica Islamica d’Iran, il Pakistan, l’Asia Centrale, da dove la droga parte poi per i mercati occidentali, in particolare l’Europa. In alcune aree dell’ovest del paese, inoltre, le sacche di insorti rappresentano ancora un grande ostacolo allo sviluppo del progetto. Secondo stime della Nato, metà dei fondi a disposizione dei ribelli – pari a circa mezzo miliardo di dollari – proviene proprio dal narcotraffico. I talebani non avrebbero alcuna intenzione di rinunciarci. Così, sono stati visti distruggere campi con coltivazioni legali, assaltare mezzi con bulbi di zafferano e fertilizzanti, minacciare di morte gli agricoltori e le loro famiglie. Secondo un vecchio detto in pashtu, «il potere spiana le montagne». Ma in Afghanistan, in questo momento, sembra essere nella mani sbagliate.