Ora la Cina teme il vento del Maghreb

Ora la Cina teme il vento del Maghreb

È oramai nota la dottrina secondo la quale un battito di farfalla in un preciso luogo del pianeta può provocare un uragano in un altro posto a migliaia di chilometri di distanza. Senza voler però spingere troppo oltre i limiti l’effetto farfalla, ci si può ragionevolmente chiedere cosa potrà provocare nel prossimo futuro nella società cinese – la cui economia si avvia a diventare la prima del mondo – il terremoto che sconvolge oggi l’Egitto e tutto il Maghreb. Vedendo quel giovane bloccare un carro armato nelle strade del Cairo il pensiero è andato immediatamente a piazza Tienanmen. Il paragone non a caso è venuto dalla penna di Nick Kristof, premio Pulitzer del New York Times per la copertura degli eventi dell’89, che era proprio al Cairo nei giorni che hanno sancito la fine del trentennale e oramai vetusto regime di Mubarak. Sono in molti infatti oggi a chiedersi per quale motivo un regime autoritario come quello del raiss sia oramai ridotto al tappeto mentre dall’altro capo del mondo il partito comunista cinese – e la sua formula ben rodata di capitalismo nazionalista – tenga ancora ben salde, nelle proprie mani, le redini del potere. Ma le apparenze ingannano.

La Cina non è assolutamente immune dal terremoto che sta sconvolgendo il Maghreb e forse altri regimi autoritari del Medio Oriente. Ne è convinto il Wall Street Journal, che nell’edizione online di ieri ha spiegato come, nonostante un tasso di crescita economica pressappoco la metà di quello cinese e nonostante un’economia stagnante negli ultimi decenni, gli egiziani – che vantano un reddito capite di circa 5.900 dollari (circa 4.280 euro) contro i 3.744 dollari (2.745 euro) dei cinesi – stiano complessivamente meglio dei loro omologhi asiatici. Non bisogna dimenticare infatti che le rivolte nel Maghreb sono nate come rivolte del pane, ovvero proteste per la mancanza di lavoro, di prospettive economiche e di possibilità concrete per i giovani. E da questo punto di vista la Cina è una pentola in ebollizione in quanto il malcontento cresce a causa delle forti disuguaglianze economiche esistenti nel paese. Un esempio è rappresentato dall’enorme divario che esiste tra città e campagne e dall’allargamento del distacco dei salari, messo in luce da diverse ricerche pubblicate in questi anni. Nel 2007 un rapporto dell’Accademia cinese delle scienze sociali ha dimostrato che il divario tra ricchi e poveri, in una Cina in rapida crescita economica, è giunto ormai ai livelli del Sud America, e che questa differenza si è ampliata in modo drammatico negli ultimi 20 anni.

Già un’inchiesta del 2005 dimostrava che in Cina il 10% più ricco possiede circa il 45% dei beni privati, mentre il 10% meno abbiente ha meno del 2%. Le cose non sono migliorate negli ultimi tempi, anzi, sembra che questi fenomeni vadano radicalizzandosi. Secondo l’Ufficio Nazionale di Statistica cinese, a livello remunerativo, città e campagne sono estremamente distanti: nel 2009 il reddito medio di un cittadino urbano si è attestato a quota 24.564 yuan (appunto 2.745 euro), contro i circa 7376 yuan (824 euro) guadagnati da un abitante delle zone rurali; un rapporto di 3.33 a 1 che segna la più grave disparità mai registrata dal 1978, anno cui risalgono le prime riforme economiche. Lu Xueyi, ricercatore presso l’Istituto di ricerca sociologica dell’Accademia di scienze sociali cinese, in un rapporto pubblicato nel 2010 dal titolo «Struttura della società cinese contemporanea», aveva evidenziato che la struttura sociale del paese è arretrata di circa 15 anni rispetto al suo sviluppo economico. L’economia cinese si trova infatti nella fase centrale dell’industrializzazione, ma gli indici di sviluppo dell’occupazione, dei consumi e della struttura urbana dimostrano che la società cinese si trova ancora nella fase “iniziale” dell’industrializzazione. Secondo Lu Xuey le risorse sociali e le opportunità della Cina nei vari campi e tra i vari individui sociali sono distribuite irrazionalmente.

Il dato più significativo in Egitto negli ultimi due anni è stato il tasso di disoccupazione. L’Egitto non è cresciuto abbastanza in fretta per fornire un tasso di occupazione adeguato alla sua popolazione più giovane. Al tempo stesso, l’inflazione si è ufficialmente attestata sul 10% negli ultimi due anni. Come dimostrato dagli eventi degli anni ’80 in Cina, il popolo scende in piazza anche quando vede il proprio standard di vita minacciato da una forte inflazione. La crescita cinese è infatti lenta e l’economia si basa soprattutto sulle esportazioni industriali di compagnie che impiegano manodopera sottopagata e dunque scarsamente qualificata. La disoccupazione presso i giovani laureati è un problema significativo, e la rinnovata enfasi per promuovere l’iniziativa economica di grandi compagini statali non ha fatto altro che produrre utili al Partito centrale, ma, al contempo, ha soffocato le iniziative imprenditoriali autonome. Da questo punto di vista occorre guardare più attentamente a ciò che succede in Egitto in quanto la tanto decantata stabilità cinese potrebbe vacillare di fronte a proteste di massa come quelle avvenute nelle strade del Cairo. D’altronde, lo dimostra la perizia con la quale il governo cinese cerca di mettere in cattiva luce, attraverso i media ufficiali, ciò che succede in Egitto.

Come riporta Evan Osnos nel suo editoriale da Pechino per il New Yorker, i caratteri cinesi che compongono la parola “Egitto” sono stati bloccati in questi giorni dai motori di ricerca cinesi e le principali televisioni si sono soffermate esclusivamente su dettagli come auto incendiate e altri elementi che fanno leva sulla paura generata dal caos della rivolta. Nel giorno della collera al Cairo, il People’s Friday cinese titolava «Malfunzionamenti e caos in Egitto non giovano a nessuno». Nel pezzo si evidenziava il fatto che se l’Egitto diventa un secondo Iran «il mondo dovrà fronteggiare un imminente disastro». Il quotidiano filo-governativo in lingua inglese Global Times invece titolava «Una rivoluzione colorata non porta necessariamente a una reale democrazia». Il regime di Mubarak ha imbavagliato i media e creato in poche settimane una gigantesca prigione a cielo aperto per cercare di far apparire meno eclatante lo spessore della rivolta. Nelle ultime settimane le sedi di numerosi giornali erano state chiuse, alcuni quotidiani addirittura ricomprati dal governo, giornalisti egiziani arrestati, troupe di cronisti stranieri espulsi o aggrediti da poliziotti in borghese (come dimostra il rapporto di Reporters sans Frontières). La televisione satellitare Al-Jazeera è stata addirittura vietata e il governo egiziano ha imposto agli operatori telefonici (tra cui Vodafone, ripetutamente accusato di eseguire ciecamente gli ordini del regime) di avviare un meccanismo di controllo e di filtro preventivo degli sms. Con il bavaglio generale ai media e i servizi di telecomunicazione sotto stretto controllo governativo, la rabbia del popolo egiziano è esplosa sul web. Gli specialisti dei media nel mondo arabo sono quasi tutti concordi nell’affermare che l’Egitto conta una delle blogosfere più attive del mondo arabo (oltre 17 milioni di internauti), il numero più elevato di profili su Facebook (oltre dieci milioni) un utilizzo di Twitter superiore anche a diversi paesi europei.

Solo nella giornata di lunedì 24 Gennaio quasi 100.000 persone avevano aderito su Facebook alla prima giornata della collera con assembramenti nella piazza centrale del Cairo, la piazza Tahrir. Il regime di Mubarak con un colpo di coda ha chiuso Twitter. Gli utenti egiziani di Twitter però sono riusciti ad aggirare la chiusura utilizzando il servizio attraverso gli sms, server proxy e altre applicazioni “terze” (ad esempio TweetDeck o HootSuite). Molti internauti hanno invece superato il blocco imposto delle autorità attraverso reti VPN (virtual private network) con le quali inoltre hanno fatto credere alle autorità di stare accedendo da altri paesi. Come dimostrato da ReadWriteWeb (uno dei dieci blog più influenti del mondo, pubblicato nel supplemento tecnologia del New York Times) anche la rivolta in Egitto come quella in Tunisia sono stati fenomeni la cui organizzazione e il cui flusso d’informazioni sono stati veicolati soprattutto sui social network. Ecco perché la Cina segue da vicino gli eventi egiziani e dimostra di temere Internet e i social network più di ogni altra cosa. Il Paese figura già nella lista nera dei «nemici di Internet» stilata da Reporters Sans Frontières. In Cina gli utenti sono spiati, le ricerche monitorate, numerosi siti sono del tutto inaccessibili. Dopo aver allentato i controlli nel corso delle Olimpiadi del 2008 – avendo gli occhi del mondo puntati addosso – il governo di Pechino ha immediatamente riattivato la sua censura “preventiva” soprattutto quella dei servizi 2.0. Twitter, Flickr, Facebook, restano infatti inaccessibili o raramente accessibili in quanto considerati strumenti incontrollabili. Anche Google, dopo il suo addio alla Cina, ha stilato una blacklist dei servizi inaccessibili nel paese. Tra questi figuravano YouTube, Blogger, Google Docs o Picasa. Addirittura il browser Firefox ha creato un plugin dal nome China Channel, che permette a un utente occidentale di viaggiare in rete come se fosse un internauta cinese. Un’esperienza sicuramente significativa. L’esempio poi della recente rivolta nel Xinjiang è lampante. L’accesso a Internet è risultato pressoché nullo, le uniche pagine raggiungibili erano quella dell’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, del quotidiano People’s Day e di altri due portali. Con i suoi 384 milioni di utenti, oggi la Cina rappresenta la più grande popolazione online del mondo. Ci si può legittimamente chiedere per quanto tempo il governo cinese possa riuscire a tener imbavagliata una massa di tali proporzioni.

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