Sulla Carta «la Repubblica tutela il risparmio in tutte le sue forme». Nell’ultimo decennio, però, la promessa dei padri costituenti è stata troppe volte tradita dalle banche. E da chi avrebbe dovuto vigilare sui comportamenti e regolamentare il mercato. Senza che sia necessario enumerare grandi e piccoli scandali, per rendersene conto basta guardare i rendimenti che l’industria nazionale del risparmio gestito – tuttora dominata dagli istituti di credito – riesce a produrre per la clientela, come Mediobanca-Ricerche & Studi ricorda ogni anno. In un decennio i fondi hanno distrutto valore per 120 miliardi di euro.
A questo stato insoddisfacente di cose, nelle scorse settimane i vertici del sistema finanziario italiano hanno deciso di porre rimedio. Non attraverso un aumento degli spazi di scelta dei risparmiatori, come potrebbe aspettarsi chi pensa che la competizione di mercato ben regolata possa indurre i produttori a migliorare l’offerta, ma a modo loro. Vale a dire in un modo «per cui il risparmio italiano venga gestito da istituzioni italiane».
In nome dell’italianità, un vessillo infido che in passato è stato impugnato dal governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, nelle ultime settimane è emersa una convergenza fra l’attuale governatore Mario Draghi, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e Giuseppe Guzzetti, presidente dell’Acri, l’associazione che rappresenta le fondazioni di origine bancaria. Rispetto alle prime due istituzioni, l’Acri è poca nota al grande pubblico. Ma non per questo è meno potente: i suoi associati amministrano un patrimonio di quasi 60 miliardi, ereditato con la privatizzazione delle casse di risparmio, e sono azionisti influenti dei principali istituti di credito italiani.
Il banco di prova dell’intesa tattica fra Bankitalia, Tesoro e fondazioni è respingere «l’assalto straniero al risparmio privato italiano», come il Corriere della Sera ha definito l’interessamento di compratori esteri a Pioneer Investments, la società di gestione del risparmio (sgr) che il gruppo Unicredit ha messo in vendita ormai da tempo. Pioneer gestisce risparmio privato italiano per 110 miliardi di euro, ripartiti tra fondi, portafogli individuali e prodotti assicurativi.
Il disegno che si punta a realizzare è la creazione di un maxi polo del risparmio attraverso l’aggregazione di Pioneer con Eurizon, la sgr di Intesa Sanpaolo. Ossia l’unico diretto concorrente di Unicredit in Italia. Un grande moloch del risparmio così concepito, attraverso cioè un patto fra le due più importanti banche italiane, potrà contare su masse gestite complessive per oltre 250 miliardi. E promette sin da ora di essere una centrale di potere finanziario smisurato, con un groviglio di interessi difficile da sbrogliare. Salvo sacrificarne qualcuno.
Il maxi polo sarebbe innanzitutto un forziere di debito pubblico. Tutti i fondi obbligazionari italiani hanno sempre investito in Btp, ma negli ultimi anni la loro esposizione ai titoli di Stato italiani è aumentata, segnalano i dati di Morningstar. Naturalmente, la nuova entità assicurerebbe un acquirente sicuro e dalle spalle larghe per le emissioni del Tesoro. Si può stimare che, a fine 2010, una buona metà delle consistenze di titoli di stato fosse nelle mani estere. In tempi in cui i mercati hanno spesso la luna storta e non pochi governi temono che le aste di titoli pubblici vadano deserte, il ritorno dei Bot-people per interposto fondo è notizia molto gradita al ministro Tremonti.
Pioneer-Eurizon sarebbe anche una stanza di compensazione di potere e di poltrone di Piazza Affari. I fondi azionari investono infatti quote rilevanti in imprese quotate e attraverso l’associazione di settore, Assogestioni, si coordinano per presentare liste comuni di candidati ai consigli di amministrazione. Poiché Eurizon e Pioneer sono già oggi i due maggiori soci-sponsor di Assogestioni, insieme avrebbero il peso del “socio di riferimento” dell’associazione: crocevia ineludibile per l’assegnazione degli incarichi di amministratore indipendente. Alla bisogna, inoltre, il moloch potrebbe prestare servizio all’altare finanziario della Patria: difendendo cioè l’italianità delle imprese. Ma con i risparmi delle famiglie clienti, il cui obiettivo ottimale dovrebbe essere, in teoria, la massimizzazione dei ritorni entro un orizzonte di tempo stabilito, tenuto conto della propensione al rischio finanziario.
Il cerchio si chiude con le fondazioni bancarie, composito mondo di istituzioni formalmente private ma legate per statuto alla politica locale. Da un lato, cerniera fra gli interessi dei gruppi di potere che emergono sul territorio e il management bancario-finanziario, dall’altro cinghia di trasmissione del ministero dell’Economia, che per legge ne è controllore e per contratto ne è socio (nella Cassa depositi e prestiti). Guzzetti, peraltro, è l’unico dell’inedito trio ad essersi esposto: «Io applaudo e sono favorevole», ha detto il 25 gennaio il presidente dell’Acri. Una posizione che «non c’entra con il mio essere azionista di Intesa Sanpaolo», ha aggiunto con riferimento al fatto che la Cariplo, la fondazione presieduta da Guzzetti, detiene il 4,6% della banca. La conferma apertis verbis che le auspicate nozze del risparmio nascono al di fuori di una logica strategica aziendale. Per non sbagliare, Angelo Benessia, presidente della Compagnia di San Paolo, primo azionista di Intesa, si è affrettato a condividere la cosiddetta “operazione di sistema”.
Finora né Draghi né Tremonti hanno preso pubblicamente posizione sulla vicenda. Nemmeno però hanno smentito l’azione di moral suasion (persuasione reverenziale) che, secondo diversi organi di stampa, governatore e ministro avrebbero messo in campo per convincere gli amministratori di Unicredit e di Intesa al matrimonio combinato fra le società-figlie. Fonti vicine alla vicenda hanno confermato a Linkiesta che le due autorità di vigilanza stanno conducendo un’opera di persuasione sui banchieri e sui grandi soci delle due banche, perché si vada verso la creazione di un campione nazionale del risparmio gestito. La prudenza di Draghi è comprensibile. Tanto più che l’11 febbraio lo stesso governatore è stato candidato da Tremonti alla presidenza della Bce: nel giro dei banchieri centrali europei una manifestazioni inappropriata di patriottismo non sta bene, né aiuta a far carriera.
Certo, la “benedizione” di Draghi all’arrocco italico sull’asset management ha fatto arricciare il naso in quel di Francoforte e di Bruxelles. Soprattutto a chi, dentro l’Eurotower e nei corridoi della Commissione europea, ricorda ancora le Considerazioni finali del 31 maggio 2007: «Le strategie del risparmio gestito restano ancora in gran parte subordinate a quelle delle società controllanti…architettura aperta, netta separazione societaria, finanche nella proprietà, sono di beneficio per gli azionisti delle banche, per i clienti dei fondi».
Anche Tremonti, del resto, preferisce muoversi dietro le quinte. Ma è eloquente il fatto che Giuseppe Vegas, neo presidente della Consob, praticamente imposto da Tremonti – del quale è stato fedele collaboratore e viceministro fino allo scorso dicembre –, abbia trovato il tempo di fare trapelare la sua preoccupazione per il fatto che Pioneer cambi padrone, senza però mai sollecitare un comunicato ufficiale di chiarimento a Unicredit e Intesa sulla tanto chiacchierata aggregazione.
Dal punto di vista aziendale e industriale, invece, le cose sono più complesse. Federico Ghizzoni, amministratore delegato di Unicredit, è in questo momento l’anello debole della catena, ed è stato il primo ad aprire alla cosiddetta “soluzione di sistema”. L’istituto di Piazza Cordusio avrebbe bisogno in realtà di alleggerire il proprio patrimonio, vendendo i rami di business non strategici: e il risparmio gestito è stato già da tempo ritenuto fra questi. Dal primo giro di consultazioni con i potenziali interessati (Amundi, polo francese creato dalle sgr di Crédit Agricole e Société Générale, che recentemente si è chiamata fuori, la britannica Resolution e i francesi di Natixis), è emerso che con la vendita si potrebbe incassare fra 3 e 3,5 miliardi. Ricavato che sarebbe ben difficile da realizzare in caso di aggregazione con Eurizon. Intesa Sanpaolo ha le stesse esigenze di Piazza Cordusio, e per di più l’amministratore delegato Corrado Passera non ha mai creduto davvero nella strategia del risparmio gestito. Tant’è che nel 2005 aveva venduto l’allora Nextra sgr ai francesi di Crédit Agricole, salvo essere costretto a ricomprarla due anni dopo, nell’ambito degli accordi per la fusione Intesa-Sanpaolo Imi.
Non è un caso che né Passera né Giovanni Bazoli, presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, siano entusiasti di un progetto calato dall’alto. Bazoli ha frenato senza però dire no: «Una decisione di questo genere non spetta agli azionisti, ma al management e agli organi della società, e questi stanno esaminando il problema». Passera non ha voluto commentare. Un modo prudente di prendere tempo, senza dire di no agli azionisti. Nella memoria di tutti i banchieri chiamati in causa in questa vicenda, è infatti ancora vivo il ricordo della defenestrazione di Alessandro Profumo, ex a.d. di Unicredit. Prima di aprire un fronte di battaglia con gli azionisti ci stanno pensando più e più volte.
Intanto, stanno studiando le carte e i numeri. Che per adesso non promettono nulla di buono per gli azionisti. Le economie di scala del nuovo colosso, che considerando anche il patrimonio fuori dall’Italia avrebbe attivi in gestione per quasi 400 miliardi di euro, sarebbero poca cosa rispetto alle criticità strategiche che si aprirebbero sul fronte distributivo. Gli esuberi innanzitutto, determinati da sovrapposizioni di ruoli. Eurizon ha circa 450 dipendenti, di cui circa 200 nelle funzioni investimenti e commerciale. Pioneer ne ha 2mila, di cui 300 in Italia.
I problemi più rilevanti sarebbero sul fronte distributivo. In Italia le due sgr operano secondo una logica “captive”, che vuol dire che vendono i loro prodotti ai clienti del gruppo. In caso di fusione, quindi ci sarebbe un solo gestore di fondi su oltre 10mila sportelli (5.900 di Intesa più 4.500 di Unicredit), con inevitabili problemi di concorrenza sia da un punto di vista regolamentare (Antitrust) sia da un punto di vista commerciale (i due istituti offrirebbero lo stesso prodotto e sarebbero soggetti alla tentazione di mettere in atto comportamenti opportunistici sulla propria rete ai danni dell’altro socio della sgr).
A meno di decidersi finalmente per la liberalizzazione delle reti distributive, con l’ingresso di fabbriche di prodotto di altre sgr: obiettivo che la Banca d’Italia di Draghi ha più volte rimarcato, ma che negli ultimi tempi è caduto nel dimenticatoio. Ma questa strada ha una pesante controindicazione, dal punto di vista della nuova entità. Pioneer-Eurizon rischierebbe di perdere raccolta, a tutto vantaggio dei prodotti di altri operatori, magari esteri.
Uno scenario perfettamente descritto da Andrea Beltratti, professore di economia dell’Università Bocconi, in un position paper scritto nel 2008 per Assogestioni. Ironia della sorte, da poco meno di un anno Beltratti è presidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo. Coincidenza fortunata per mettere insieme teoria e prassi. E per evitare che «l’obiettivo di avere un’industria di asset management forte basata in Italia», auspicato da Beltratti, degeneri in un grande inciucio di interessi, privo di una chiara strategia e di una limpida linea di comando. Diversamente, il grande moloch del risparmio gestito potrebbe fare la fine di Arca, la sgr delle banche popolari che i differenti interessi dei suoi azionisti e il conseguente stallo strategico stanno condannando a una morte lenta per dissanguamento.