GUANGDONG. Xu Xiaoping è una ragazza di diciannove anni. Dall’inizio del 2009 lavora nel reparto di assemblaggio dell’impianto Piaggio di Foshan, una città della provincia cinese del Guangdong, quella zona che solitamente viene definita «fabbrica del mondo» (shijie gongchang). A suo dire, il lavoro non è tanto faticoso, quanto ripetitivo: ogni giorno sulla catena di montaggio deve replicare all’infinito gli stessi movimenti, in un’estenuante coreografia che non ammette la minima variazione. La vita di Xu si snoda tra il lavoro e il dormitorio, priva di svaghi e di soddisfazioni. Non ama spendere soldi e ogni mese manda a casa quanto è riuscita a risparmiare, fino all’ultimo centesimo: «Mia madre mi ha cresciuta tra mille difficoltà e per me è un dovere condividere le responsabilità familiari».
Liu Jia è ancora più giovane, ha appena diciassette anni. È l’estate del 2009 e sta facendo uno stage presso l’impianto De’ Longhi di Dongguan, altra città nel Guangdong. È entrata in fabbrica dietro presentazione della zia e non ha alcun contratto scritto, solamente un accordo verbale che fissa la sua paga mensile a 500 yuan (55,8 euro), una cifra ben al di sotto del salario minimo legale locale. In ogni caso, per Liu questo non rappresenta un problema, visto che la sua priorità non sono tanto i soldi, quanto piuttosto l’esperienza: solamente con questo tipo di curriculum infatti in futuro potrà garantirsi un buon lavoro.
Queste sono solo alcune delle tante voci che emergono da un rapporto sulle condizioni di lavoro nelle imprese metalmeccaniche italiane in Cina che verrà pubblicato a fine febbraio dalla Federazione Italiana Metalmeccanici (Fim) della Cisl. Realizzata dall’Istituto Sindacale per la Cooperazione allo Sviluppo (Iscos) di Roma in collaborazione con l’Institute of Contemporary Observation (Ico), nell’arco di un anno e mezzo, dal maggio del 2009 all’agosto del 2010, la ricerca delinea un quadro della situazione decisamente cupo.
Secondo Liu Kaiming, direttore di Ico e primo firmatario del rapporto, l’indagine ha riscontrato quattro problemi fondamentali: «Innanzitutto, gli stipendi sono molto bassi, con tre imprese che non rispettano neppure il salario minimo legale locale. In secondo luogo, gli orari di lavoro sono troppo lunghi, con sette delle aziende che costringono i lavoratori a lavorare più di sessanta ore a settimana e alcune che impongono dodici ore al giorno per trenta giorni consecutivi o più. In terzo luogo, il diritto alla libertà di associazione dei lavoratori viene sistematicamente ignorato, con alcune aziende che non esitano a ricorrere all’arma del licenziamento in caso di scioperi. Infine, in almeno cinque aziende sono stati riscontrati problemi relativi alla salute e sicurezza dei lavoratori, con il datore di lavoro che non mette a disposizione dei dipendenti i mezzi necessari per tutelare la propria salute».
Il rapporto mette in luce come siano proprio alcune delle imprese più note a distinguersi maggiormente per la scarsa attenzione ai diritti dei propri dipendenti. In particolare, i lavoratori della Piaggio descrivono una fabbrica in cui le condizioni di lavoro sono insoddisfacenti secondo più parametri, dallo stipendio alle condizioni di sicurezza in fabbrica.
Non è la prima volta che le condizioni di lavoro nelle imprese italiane in Cina fanno discutere. Nel gennaio del 2009 i media cinesi hanno ampiamente riportato la vicenda della DeCoro, un’azienda italiana attiva nel settore dell’arredamento in pelle, il cui direttore, Luca Ricci, aveva lasciato la Cina senza pagare il salario degli ultimi due mesi agli oltre duemila dipendenti dell’impianto di Shenzhen. Questo ennesimo scandalo, unico per la sua risonanza, scoppiava dopo anni e anni di contrasti tra la direzione e i lavoratori nella sede cinese della DeCoro, con due momenti topici rispettivamente nel dicembre del 2005, quando i media stranieri avevano riportato la notizia di una vera e propria sollevazione della forza lavoro in seguito al pestaggio di alcuni ex lavoratori da parte di supervisori stranieri, e nel marzo del 2008, quando quasi 1.800 dipendenti avevano deciso di ricorrere collettivamente alla legge per richiedere il pagamento degli straordinari non corrisposti.
Eppure, il rapporto della Fim-Cisl va oltre la semplice cronaca, aprendo un nuovo capitolo nel dibattito sul rapporto tra delocalizzazione produttiva e tutela dei diritti dei lavoratori. Con questa ricerca si dimostra ancora una volta come, mentre le autorità cinesi stanno gradualmente innalzando gli standard salariali minimi in tutto il Paese e migliorando le condizioni lavorative attraverso l’adozione di una legislazione sul lavoro sempre più dettagliata, la principale forza di opposizione arrivi proprio dal mondo imprenditoriale straniero, italiano e non solo. A dispetto degli entusiasti della globalizzazione e di coloro che confidano nelle imprese come enti dotati di una responsabilità sociale.