Che cosa è il genio? Nell’indimenticabile Amici miei viene definito come un misto di fantasia, intuizione, decisione e velocità di esecuzione. Con il blitz di ieri notte sulla Parmalat, di cui sono diventati il primo azionista con una quota a ridosso del 30%, i francesi della Lactalis hanno dimostrato di averne tanto. Di certo molto più di quanto ne abbia mostrato il «sistema» Italia evocato sabato scorso dal banchiere Corrado Passera al Forum di Cernobbio.
Per l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, nella partita a difesa dell’italianità di Parmalat c’erano «l’industria, le banche e il pubblico che se ne occupa». Un triangolo di forze composto dal gruppo Ferrero – il cui interessamento veniva definito «fondamentale» -, la stessa Intesa Sanpaolo e il Governo con il ministro Giulio Tremonti in prima linea. Questo dispiego di energie non assicura il successo, osservava il banchiere di sistema, ma «è la precondizione del successo».
Invece, allo stato attuale, e salvo riapertura di una battaglia che il mercato considera già chiusa, si profila un fallimento. Per la seconda volta in meno di una settimana la famiglia Besnier, proprietaria della Lactalis, ha spiazzato l’intero sistema Italia, colpevole di un immobilismo che dura forse da anni, di certo da due mesi, visto che i tre fondi esteri Mackenzie, Skagen e Zenit, storici azionisti di Collecchio, avevano annunciato già a fine gennaio l’intenzione di aprire una nuova fase per cambiare il management guidato da Enrico Bondi, attuale amministratore delegato.
Con una spesa complessiva di 1,2 miliardi di euro Lactalis si è dunque assicurato il controllo di fatto di una società che in cassa ne ha 1,4. Senza neanche l’onere di un’offerta pubblica d’acquisto, forse ‘ostile’ ma sicuramente più equa nei confronti di tutti gli azionisti. E soprattutto più remunerativa per quel 30-33% del capitale di Parmalat in mano ai risparmiatori.
Capovolgere, adesso, le posizioni di forza diventa più difficile, sicuramente più costoso. Al sistema Italia non è mancata la giusta dose di fantasia nell’immaginare una convergenza fra il produttore di Nutella e la fabbrica del latte, ma tutto il resto sì. E ieri notte, la notte fatale in cui si è deciso che Parmalat dovesse imparare il francese, si è visto.
Per la seconda volta, quella risolutiva, è saltata la possibilità di una convergenza fra i fondi esteri e la “cordata nazionale” di cui Intesa Sanpaolo gestiva la regia. La prima è stata all’inizio della scorsa settimana, quando Passera si è arreso ai diktat del Governo (il sottosegretario Letta e il ministro Tremonti) e ha rinunciato a stringere un’alleanza con i tre investitori istituzionali, optando invece per una lista “nazionale” capeggiata da Bondi. Un segnale di debolezza che ha spaventato i fondi – un tempo sostenitori di Bondi, poi critici per l’inerzia strategica del manager aretino che teneva bloccata la cassa – ma non ha interrotto i contatti tra la banca e i fondi stessi. Da un lato, infatti, i tre investitori esteri rimanevano convinti di poter portare avanti la propria azione per cambiare i vertici della società; dall’altro temevano di rimanere stritolati in una situazione di impasse gestionale, con il nuovo consiglio di amministrazione (risultante dall’assemblea del 12 aprile) troppo frammentato e senza una maggioranza coerente.
Invitati proprio da Intesa Sanpaolo, i rappresentati dei tre fondi sono arrivati a Milano, tra la sera di domenica e lunedì, per trattare con i Ferrero. Ma quello che sabato scorso sembrava sicuro, tanto da far sbilanciare pubblicamente Passera, ieri è invece ripiombato nell’incertezza. La famiglia di imprenditori del settore dolciario di Alba ha cominciato a mostrare esitazioni, lasciando sospettare un ripensamento. Per diverse ore i fondi sono stati riuniti in attesa dell’offerta dei Ferrero, mentre Intesa chiedeva di pazientare: i patron della Nutella volevano infatti sentire prima i Besnier: «per una questione di cortesia fra industriali del settore e per assicurare che non era una mossa contro di loro», annota una fonte.
La cortesia, però, è costata cara all’iniziativa italiana. I fondi, informati dei contatti tra Ferrero e Lactalis, cominciano a temere che il gruppo italiano possa entrare in Parmalat comprando il 14% dai francesi: per loro significherebbe rimanere impantanati col loro pacchetto del 15,3% senza una conveniente via d’uscita. Preoccupati che la situazione possa precipitare a loro sfavore, Mackenzie, Skagen e Zenit chiedono perciò a Intesa Sanpaolo di accelerare. Ma i Besnier, contattati dai Ferrero, intuiscono il margine d’azione e capiscono che è il momento di presentare un’offerta. Detto fatto. Si fanno avanti ieri mattina e già in serata il capo-azienda di Lactalis, Emmanuel Besnier, è a Milano per incontrare i tre fondi. L’industriale presenta un’offerta a fermo concedendo un termine di cinque ore per accettare. Dagli italiani non arriva più nulla. Nella notte viene presa la decisione. Per l’acquisto di tutte le azioni ordinarie in loro possesso, pari al 15,3% del capitale, Lactalis sborserà un prezzo di 2,8 euro per azione, 750 milioni in totale. Considerato l’11% già acquisito, e i contratti di equity swap che consentono di salire al 14,28%, Lactalis può contare adesso su una partecipazione del 29 per cento. Padrona di Parmalat senza Opa. Beffarda conclusione in un Paese dove politici di maggioranza e opposizione, sindacalisti e associazioni di categoria stanno chiedendo al Governo di “fermare le Opa straniere”. Il risultato, comunque, è il peggiore possibile: i “patrioti” sono rimasti cornuti e mazziati, il mercato non contento ma gabbato. Da questa mattina il titolo Parmalat ha perso quasi il 7 per cento.