C’è timore che l’“odissea all’alba” naufraghi prima del tramonto, in Vaticano. Dopo un prolungato silenzio, solo ieri, a bombardamenti iniziati, il Papa è intervenuto per commentare con «viva trepidazione» le «preoccupanti notizie» provenienti dalla Libia. «Seguo ora gli ultimi eventi con grande apprensione, prego per coloro che sono coinvolti nella drammatica situazione di quel Paese e – ha detto Benedetto XVI al consueto angelus domenicale – rivolgo un pressante appello a quanti hanno responsabilità politiche e militari, perché abbiano a cuore, anzitutto, l’incolumità e la sicurezza dei cittadini e garantiscano l’accesso ai soccorsi umanitari».
Parole caute, che mettono però l’accento sull’apprensione che i raid voluti dalla Francia di Sarkozy mettano in pericolo i civili. Parole da cui traspare il malumore che, in Segreteria di Stato, inizia a montare per un’operazione militare troppo precipitata, che rischia di muoversi al di fuori dei dettami dell’Onu e contro l’avallo partorito non senza difficoltà dalla Lega araba. Un’iniziativa, soprattutto, che ha tagliato le ali a quelle colombe che, nelle cancellerie europee così come nel Palazzo apostolico, speravano di ricondurre Gheddafi a più miti consigli con vie diplomatiche.
Certo, la Chiesa cattolica in questo frangente non potrebbe muoversi in ordine più sparso. Le cacofonie sono evidenti anche tra le due associazioni cattoliche di base più attive sui temi della pace. Pax Christi chiede che le azioni militari «siano il più possibile limitate e siano accompagnate da seri impegni di mediazione». La Tavola della pace afferma, senza mezzi termini, che «così non si difendono i diritti umani». Quanto alle gerarchie ecclesiastiche, il vicario apostolico di Tripoli, Giovanni Innocenzo Martinelli, anni fa fu imprigionato dalle forze del regime, e oggi è durissimo contro l’attacco militare. «La guerra non risolve niente. Continuo a ripetere che occorre fermare le armi e avviare subito una mediazione per risolvere la crisi in modo pacifico. Perché non si è data una possibilità alla via diplomatica?». Molto più sfumata la posizione dell’altro vescovo cattolico in Libia, il vicario apostolico di quella Bengasi divenuta il fortino degli insorti, monsignor Sylvester Carmel Magro, che insiste soprattutto sulla necessità di stare vicino al «popolo libico». In Italia, addirittura, il presidente dei vescovi italiani, cardinale Angelo Bagnasco, non ha smentito il suo passato da Ordinario militare quando, pur auspicando che «si svolga tutto rapidamente, in modo giusto ed equo, col rispetto e la salvezza di tanta povera gente che in questo momento è sotto gravi difficoltà e sventure», ha dichiarato: «Il Vangelo ci indica il dovere di intervenire per salvare chi è in difficoltà. Se qualcuno aggredisce mia mamma che è in carrozzella io ho il dovere di intervenire».
Linea interventista riecheggiata anche sulle pagine del quotidiano della Cei Avvenire, che, a firma di Luigi Geninazzi, ha pubblicato un editoriale nel quale si legge: «Non c’è dubbio che i raid aerei sulla Libia, inizia ti ieri sera dopo il via libera deciso dal vertice di Parigi, costituiscano un vero e proprio atto di guerra. Ma è la risposta alla guerra che il regime sanguinario di Gheddafi ha scate nato contro il suo popolo». Ancora: «Se anche Bengasi, città simbolo della rivolta e ultima roccafor te degli insorti, cadesse nelle mani del Rais, saremmo posti di fronte non solo alla sconfitta di coloro che in Libia chiedono libertà e democrazia ma a una tragica battuta d’arresto per tutti quei movimenti che hanno dato vita alla primavera del mondo arabo».
La simpatia per la rivoluzione popolare del Nord Africa non manca neppure in Vaticano. Il portavoce del Papa, il gesuita Federico Lombardi, ha salutato la «primavera araba» all’epoca delle rivolte in Egitto e Tunisia. Ma la connessione automatica tra la piazza Tahrir del Cairo e i raid di Sarkozy non c’è, per la Santa Sede.
Due i motivi che spingono il Vaticano alla cautela preoccupata. In primo luogo, la Santa Sede vuole rimanere fedele alla teoria della «guerra giusta», che ammette l’ingerenza umanitaria (fu il caso dell’intervento in Kosovo) ma solo come «ultima ratio». E l’accelerazione impressa da Sarkozy ai raid in Libia non sono apparsi, da San Pietro, improcrastinabili.
In secondo luogo, ogni guerra con il mondo musulmano aumenta il rischio che – con tanta malafede quanta efficacia – qualcuno, nel Medio Oriente, dipinga l’Occidente come un «crociato» (parole di Gheddafi). Lo sganciamento della Lega araba dall’offensiva su Tripoli ha cementato questo timore. La Santa Sede vuole evitare di essere trascinata in una guerra di religione della quale farebbero le spese le minoritarie comunità cristiane di quei paesi. Così è stato per l’Iraq, così è oggi per il Maghreb. Rispetto alle varie alleanze politiche, militari ed ideologiche che si sono create in questi anni, il Vaticano ha quindi sempre fatto attenzione a smarcarsi e presentarsi come un interlocutore affidabile del mondo arabo.
Ratzinger, però, non è Wojtyla. Sicuramente anche lui, all’Angelus di ieri, ha concluso l’appello invocando Dio per «un orizzonte di pace e di concordia sorga al più presto sulla Libia e sull’intera regione nord africana». Parole che hanno ricordato quelle pronunciate da Wojtyla lo stesso giorno di anni prima, il 19 marzo del 2003, a proposito dell’intervento in Iraq. La distanza tra le due situazioni, però, è abissale, e non solo perché è trascorso quasi un decennio. Benedetto XVI intende la politica estera della Santa Sede con meno slancio universalistico di Wojtyla. Se il Papa polacco calibrava i suoi interventi sullo scenario geopolitico globale, assurgendo a capofila dell’opposizione mondiale alla guerra in Iraq, Ratzinger interviene per lo più se ci sono comunità cristiane a rischio. E in Libia, salvo pochi europei di stanza nel paese per motivi di lavoro, i profughi eritrei in transito e un coraggioso drappello di missionari e infermieri, la popolazione cristiana è limitata. Non molto diversa la situazione nel resto del Nord Africa. La Segreteria di Stato guidata dal cardinale Tarcisio Bertone, poi, si è dimostrata incerta in più di una crisi internazionale. E’ stato esemplare il caso egiziano. L’intervento di condanna del Papa a seguito dell’attentato ad una chiesa copto-ortodossa di Alessandria è stata letta, in Egitto, come un’indebita ingerenza negli affari interni del Paese. L’università islamica di al-Azhar ha congelato il dialogo con il Pontificio consiglio per il dialogo inter-religioso. Il grande imam Ahmed el Tayyib ha chiesto al Papa di scusarsi con il mondo islamico. La vicenda non ha avuto, in realtà, strascichi significativi, ma in Vaticano si è consolidata la convinzione che sulle vicende del Nord Africa è meglio optare per il basso profilo. A rischio di tenere un prolungato silenzio. Che può però essere rotto, con cautela, se la campagna di Libia non è più una «guerra giusta».