Una pioggerellina sottile come impalpabile zucchero a velo ricopre il grande prato davanti al salone di Villa San Martino. Dalle quattro di mattina B. si è rifugiato sul divano che fissa la vetrata spalancata sul parco, la solita vestaglia blu, raggomitolato in un angolo dopo aver abbandonato sul tappeto le babbucce di pelle. Non ha acceso neppure una luce, basta la lama violastra del cielo.
Nessuno, guardando quell’uomo, potrebbe dire se effettivamente abbia dormito qualche pezzo della notte o se, al contrario, se la stia mangiando a piccoli morsi in attesa del nuovo giorno. Molte cronache che lo riguardano, in effetti, parlano di quell’ora, le quattro, come il battito animale di una inquieta normalità pornografica, allietato dalle fameliche che sostengono ritmi incessanti pur di incassare il conquibus di riferimento. Ma sta per sorgere il nuovo giorno ed è un lunedì. Tra qualche ora, più di mezzo mondo sarà collegato: B. va a processo e 432 televisioni hanno richiesto l’accredito al Palazzo di Giustizia di Milano.
Nella casa depurata da profumi femminili troppo forti e ineleganti, c’è una solitudine diversa. Tutti ancora dormono, Alfredo il maggiordomo si sveglierà solo tra un’ora, e B. sta pensando al suo processo con un pizzico di autocompiacimento. In fondo, non gli dispiace passare per le forche della Procura milanese perché gli è esplosa tra le mani una “questione femminile”, tutto sommato è la sintesi estrema di un’onesta carriera di dongiovanni, che aveva la sua massima espressione in quei consigli di amministrazione di Fininvest, quelli di via Rovani a Milano ai bei tempi andati: si aprivano invariabilmente con un’oretta di racconti tra barzellette sconce e prodezze personali, in cui tenere sempre a mente che le risate più franche e orgogliose dovevano essere rivolte ai racconti del Capo, e poi proseguivano, più pacatamente, con le questioni aziendali.
Adesso gli scorrono in mente i nomi di quegli amici, alcuni non ci sono più, altri hanno condiviso ancora tanto della sua vita. Sta pensando per un attimo che quel tempo forse era migliore, migliore di questi diciassette anni ingrati in cui ha tenuto in mano il Paese, senza prenderlo veramente. E conoscendo già la risposta, si sta chiedendo se quel tempo avventuroso e spensierato potrà mai tornare. In questo momento, ma sono sempre e solo le quattro di notte e tutto si può fare (e pensare), gli sta gloriosamente sui coglioni perfino Ghedini, la sua vera ossessione giudiziaria. Si rimodella tra le mani quel pomeriggio di un giorno da cani in cui Gaetano Pecorella glielo presentò come un giovine di belle speranze, al quale era riuscita l’impresa di scovare una norma così nascosta, ma così nascosta e sconosciuta perfino al Pecorella medesimo, che uno dei suoi processi l’aveva salvato proprio quel lasagnone padovano lungo lungo e triste. Ne vorrebbe cambiare il finale, a quella giornata, ma è semplicemente un esercizio di stile al quale non è più abituato, non essendo più abituato a prendere tempo per sé e non farselo rubare dagli altri, come accade ormai da molti anni.
Eccolo un tormento che non si placa, ritrovare quell’attitudine antica ad anticipare le cose, come in fondo gli era capitato nella sua prima vita, quella dell’imprenditore televisivo. Da almeno tre lustri e mezzo, il tempo della sua politica, non anticipa più nulla, sovrastato e sopraffatto da un gioco che credeva di poter governare e che invece si è impossessato di lui, senza peraltro restituirgli gloria vera e duratura. Guarda ancora la casa avvolta in un buio che la prima luce sta per penetrare. Ne conosce ogni angolo, ogni possibile anfratto. Alle volte si chiede se non sia perfetta per rinchiudere, stavolta per sempre, la sua inquietudine di uomo accerchiato. Non la divide, né la condivide, stabilmente, con altri umani e di questa solitudine dovrà ancora farsi carico per il tempo che resta. Sulla solitudine del potente s’è già scritto molto, inutile annoiarvi, ma perché un uomo come lui non ha uno straccio di amico con cui bere un bicchiere o non vorrete mica credere alla favoletta secondo cui per B. ci sarebbe un sacco di gente che si butta nel fuoco? Macchè, un cazzo di nessuno. E quando, tempo fa, ha confessato di aver passato persino un capodanno con la scorta pur di avere compagnia, era vero. Quando ci pensa diventa cupo, l’anima si ribella all’idea che il potere, con tutto il potere che ha, in realtà poi non compri nulla delle persone, se non quella parte di superficie in vendita chiamata culo.
Lo sa bene B., che in realtà ruffiano nel senso più classico non è mai stato, neppure quando potenti erano gli altri e lui doveva organizzare il loro star bene. Ecco, semmai lui riusciva a organizzare impeccabilmente “il bene degli altri”, in questo si poteva considerare il migliore, e converrete che poter contare su uno così era vera manna per i suoi referenti. In buona sostanza, B. capitalizzava perfettamente quella debolezza congenita dei politici di fronte a ricchezze ostentate e luccicanti (come la sua). Eppoi, chi sfruttava chi tra Craxi e B. e chi il più provinciale? Uno dei suoi giochi preferiti è sempre stato mettere in parallelo la sua storia di adulatore con quella degli altri, che ora lo sono con lui e che da lui hanno vantaggi e prebende. E ancora oggi, sul dare/avere sente d’essere ancora in credito, anche se la storia racconta che il destino di B. si risolse nel corso di una notte e che notte. Ma quando, al riparo da tutti, è capace di rinfacciarsi i favori della politica, placa il suo animo con la storia dell’imprenditore che un bel giorno sfidò la Rai, restando in piedi. Adesso sono le cinque e Alfredo gli sta portando il primo caffè di una lunga giornata. (1-continua)