I caccia e le navi da combattimento della coalizione Onu sono in azione davanti alla costa e nei cieli della Libia, ma c’è anche un altro fronte del colonnello Gheddafi che l’Onu e l’Europa hanno già attaccato da settimane, e che tra poche ore si intensificherà: è la guerra economica. Come si legge in un comunicato del Consiglio dell’Unione europea, i ministri degli Esteri che si incontreranno domani a Bruxelles e il Consiglio europeo che si riunirà dal 22 al 25 marzo «discuteranno la situazione in Libia e adotteranno le misure necessarie»: in base alla risoluzione 1973 approvata venerdì scorso dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, molto probabilmente saranno rafforzate ed aggiornate le sanzioni economiche nei confronti dei fondi libici direttamente o indirettamente riconducibili al clan Gheddafi.
C’è una nuova compagnia libica che il Consiglio sicurezza Onu ha inserito nella lista nera: al numero 5 si legge che la Libyan National oil corporation (Noc) è «controllata da Muammar Gheddafi e famiglia, ed è una potenziale risorsa finanziaria per il suo regime». Se nei prossimi giorni l’Unione europea dovesse adottare sanzioni contro la compagnia petrolifera libica, anche il gruppo Tamoil Italia potrebbe essere congelato: l’azienda con sede a Milano è la holding italiana del gruppo Oilinvest (Netherlands) B.V., che per il 70 per cento è controllata dalla Noc. Lo stesso presidente di Tamoil Italia, Isam Zanati, è libico.
Finora l’azienda non è stata coinvolta nell’embargo economico, ma adesso tra i 600 dipendenti della compagnia petrolifera (che nel nostro Paese copre una quota di mercato di quasi l’8 per cento con circa duemila distributori) comincia a crescere la preoccupazione. L’incontro tra sindacati e il ministro dello Sviluppo economico (che era stato fissato al 30 marzo per discutere del futuro dell’azienda) è stato anticipato al 25: proprio il giorno in cui si chiude il Consiglio europeo che deve stabilire le sanzioni.
Le misure che l’Unione europea dovrebbe adottare nei prossimi giorni potrebbero avere ripercussioni soprattutto sulla vicenda della raffineria Tamoil di Cremona, in cui lavorano 278 persone e che secondo il piano dell’azienda (comunicato ai sindacati nel novembre scorso) chiuderà a maggio per trasformarsi in un «polo logistico dell’energia», cioè in un deposito di carburanti: Tamoil ha presentato dieci giorni fa la richiesta di dismissione alla Regione Lombardia.
Ma la raffineria già non lavora più un barile di petrolio da domenica 6 marzo, quando c’è stato uno scoppio in un trasformatore di potenza che ha causato un incendio e il blocco a catena di tutti gli impianti (solo per fortuna non ci sono stati feriti). L’incidente – sostengono i lavoratori della raffineria – è stata un’occasione che l’azienda ha colto al volo per anticipare il fermo dello stabilimento: dal 6 marzo, a Cremona non è più arrivato petrolio attraverso l’oleodotto che parte da Genova. E il problema non sembra essere la difficoltà degli approvvigionamenti causata dalla guerra in Libia, visto che alla raffineria Eni di Sannazzaro de’ Burgondi (che si trova a 25 km a ovest di Pavia e si rifornisce con lo stesso oleodotto) il petrolio continua ad arrivare.
Quando a Cremona si parla di raffineria vengono in mente tre questioni: il lavoro, l’ambiente e le indagini della magistratura. E a sintetizzare bene la questione è un’interrogazione parlamentare presentata l’8 marzo scorso dal deputato radicale Maurizio Turco. Nell’interrogazione, Turco sottolinea che la proprietà di Tamoil ha sede in un paradiso fiscale. Alcuni lavoratori dell’azienda accusano il gruppo di essere poco trasparente: la dirigenza Tamoil ha sempre detto che la raffineria di Cremona fa perdere alla società 60 milioni all’anno. Ma secondo indiscrezioni, il bilancio di Tamoil Italia dovrebbe subire per il 2010, a causa dello stabilimento cremonese, una perdita di 250 milioni. Quattro volte e più di quanto affermato finora dall’azienda.
Si legge nell’interrogazione (che come altre avanzate da Turco sulla questione non ha ricevuto risposta): «Premesso che Tamoil Italia spa è la holding italiana del gruppo Oilinvest (Netherlands) B.V.; il gruppo Oilinvest (Netherlands) B.V., che ha sede in Olanda, fa parte del gruppo Oilinvest International NV, che ha sede nelle Antille olandesi; lo Stato italiano ha inserito le Antille olandesi nell’elenco dei paradisi fiscali (decreto del ministro delle finanze del 21 novembre 2001); si chiede come il Governo intenda far fronte alle esigenze della città di Cremona, dei cittadini e dei dipendenti della raffineria Tamoil, di fronte alla possibilità che la proprietà libica – approfittando della situazione nel proprio Paese o dell’alto costo che avrebbe ristrutturare o riconvertire la raffineria – lasci alla città una raffineria obsoleta che ha già causato non pochi danni all’ambiente e alle persone, dipendenti innanzitutto; se non intenda congelare azioni e beni della società Tamoil Italia spa anche al fine di poter avviare le opportune iniziative per la tutela dell’ambiente e della salute nell’area interessata».
Oltre ai 278 dipendenti, che al momento continuano a lavorare per smaltire i depositi, grazie all’indotto hanno un’occupazione altre 700 persone circa. Per 150 dipendenti l’azienda ha assicurato che si troverà una soluzione, buona o meno che sia: per gli altri 128 ancora non c’è un piano, nonostante Tamoil stessa abbia convocato i sindacati la scorsa settimana per discuterne. I lavoratori dell’indotto invece non possono neanche avere la speranza di usufruire di ammortizzatori sociali. A Cremona, almeno fino a novembre, si diceva che avere un posto in raffineria era come essere assunti dalle ferrovie: era la certezza di lavorare per tutta la vita. Si può immaginare quanto grande sia per la comunità cremonese il dramma per la chiusura dello stabilimento.
E poi c’è il forte inquinamento che la raffineria ha causato nei decenni. La Oilinvest ha comprato Tamoil nel 1988, ma lo stabilimento (che si trova accanto al fiume Po, a un chilometro e mezzo dal centro di Cremona) è presente sul territorio dagli inizi degli anni ’50.
Sotto la raffineria, che copre un’area di 75 ettari, ci sono idrocarburi nel terreno per circa 70 metri di profondità. Secondo i risultati delle prime indagini della magistratura, nel 2008, nella falda superficiale gli idrocarburi superavano di duemila volte i limiti (per l’acquedotto cremonese, che si rifornisce a monte dell’inquinamento, non ci sono mai stati problemi). Tamoil aveva presentato un’autodenuncia alle autorità nel 2001, ma la questione a Cremona era diventata nota pubblicamente solo nel 2008, quando si ebbero le prime ripercussioni sulle società canottieri che si trovano strette tra il Po e la raffineria.
Oggi la preoccupazione dei cittadini cremonesi (e il terrore elettorale della classe politica, che non sembra avere fatto molto negli ultimi dieci anni per affrontare il problema dell’inquinamento) è che approfittando della guerra, la proprietà libica Tamoil faccia fagotto, lasciando ai cittadini i costi milionari di una bonifica lunga e difficile.
Su inquinamento, danni alla salute di dipendenti e cittadini e relative responsabilità, la procura di Cremona ha indagato per quasi tre anni. A due dirigenti della Tamoil e a un delegato del settore ambiente e sicurezza, la procura contesta reati in materia edilizia, illecita gestione dei rifiuti e getto pericolose di cose (cioè fuoriuscite di vapori nauseabondi). L’episodio forse più grave, quando nel novembre 2009 alcuni studenti e dipendenti dell’istituto agrario «Stanga», che si trova vicino alla raffineria, ebbero malori.
L’inchiesta è stata chiusa, ma il pm che ha portato avanti le indagini ora si è trasferito, e alla procura di Cremona mancano in organico due magistrati: è molto difficile che venga chiesto in tempi brevi il rinvio a giudizio per le persone indagate.
Daniele Ferro