Stiamo scoprendo, giorno dopo giorno, che il Presidente della Repubblica – se vuole – non è poi quell’inutile taglianastri di cui si racconta, né tantomeno la pallida statuina decorativa da esporre nelle occasioni istituzionali. Lo stiamo scoprendo grazie a Giorgio Napolitano. E’ lui che rivede, rimodella, interpreta l’attualità politica con l’attenzione certosina che le regole gli impongono. La strategia con cui ha gestito la questione della nomina di Saverio Romano a ministro dell’Agricoltura ne è plastica testimonianza. E ancora qualche giorno fa, in presenza di una ridicola querelle italo-francese, la decisione con cui ha puntato sulla Nato per la gestione degli affari di guerra.
Il punto centrale, che al Quirinale tengono in gran conto, è come interpretare un certo sentimento popolare, quella parte di pubblica opinione dai buoni studi e dall’afflato liberale che appare smarrita di fronte all’estrema disinvoltura della politica e dei suoi protagonisti. Giorgio Napolitano non vuole essere il portavoce degli indignati, né rappresentarne le istanze. Gli appare una strada troppo fallibile e, sostanzialmente, sbagliata. Preferisce cogliere fior da fiore, quando la situazione lo richieda e lo imponga. E il caso Romano lo imponeva.
Nella storia moderna della nostra repubblica, non si ricorda un altro Capo dello Stato che abbia eccepito sul piano squisitamente morale la nomina di un ministro della Repubblica, come ha fatto Napolitano con il prescelto all’Agricoltura. La questione è palesemente scivolosa e per ritrovare almeno il sapore di qualcosa di analogo, bisogna tornare al caso Previti e al conseguente no di Scalfaro. Nessuna vera affinità ma solo lontani rimandi mentali, perché in realtà la proposta di Berlusconi di nominare il suo avvocato personale per il dicastero della Giustizia era talmente fuori da un contesto civile che neppure nel “democratico” Laos l’avrebbero presa in considerazione.
In questo caso, invece, siamo nelle pienissime prerogative di un presidente del Consiglio, che comincia a saldare il suo debito con i Responsabili attraverso il primo ministero. La nota con cui il Capo dello Stato ha accompagnato la nomina di Romano è persino clamorosa nella forma. Da una parte, si precisa che non si ravvisano impedimenti giuridico-formali che possano giustificare un eventuale no, dall’altra si sottolinea che «si è ritenuto necessario assumere informazioni sullo stato del procedimento a suo carico per gravi imputazioni».
La domanda è: perché Napolitano ha voluto far sapere in modo così evidente di aver assunto informazioni sulla posizione giudiziaria di Romano, non avrebbe potuto molto più discretamente muovere la sua diplomazia, per poi prendere una decisione? La scelta di pubblicizzare il dissenso ha una sua chiara traduzione popolare, in buona sostanza Napolitano manda questo messaggio al Paese: io, questo signore non lo avrei mai fatto ministro, ma con i miei attuali poteri non posso fare altro che prendere atto e sottolineare ciò che non va.
Se sul piano strettamente politico, la posizione del Capo dello Stato è del tutto legittima, c’è da interrogarsi sulla liceità “morale” del suo intervento, visto che il cittadino Romano è innocente fino a prova contraria. Al momento, la sua situazione giudiziaria è questa: il gip di Palermo, Castiglia, non ha accolto la richiesta di archiviazione dell’inchiesta che lo vede coinvolto per concorso in associazione mafiosa.
Converrete che fare le pulci a Romano quando il presidente del Consiglio è imputato a Milano “solo” per concussione e prostituzione minorile, appare un tantino discutibile. In questo caso – ed è la primissima volta – Napolitano si è avvicinato a Oscar Luigi Scalfaro, l’uomo che della battaglia al Cavaliere ne fece quasi una malattia. Giorgio N. si è sempre tenuto distante dalla tentazione di personalizzare i conflitti. E’ questo l’inizio di un’altra fase o solo un episodio per marcare un disappunto?