Qualche anno fa, era il periodo di Natale, chiesero a Vittorio Foa, il più ragazzo tra i grandi della sinistra, se avesse ancora qualche desiderio. Strizzando gli occhi, ne declinò uno evidentemente latente che poi risolse con straordinaria ironia: «Una coppia di nostri amici ci ha invitato a fare un viaggio alle Maldive. Ho subito detto a mia moglie: che dici “Sesa”, non l’abbiamo mai fatto, sarebbe bello, no? Poi, passato qualche attimo, ho pensato che per la mia storia e la mia età, forse non mi sarei meritato quella beffa sulla lapide: Vittorio Foa, Torino 1910 – Maldive 2006». Foa è morto assai più “normalmente” a Formia nel 2008.
Questo piccolo episodio racconta, a suo modo luminosamente, il rapporto complesso e alle volte tormentato che ha legato gli uomini di sinistra a una certa concezione della vita, in cui severità, discrezione e sobrietà dovevano apparire come il bagaglio indispensabile del buon politico. È sufficiente dare un’occhiata ai grandi ancora in vita (Napolitano, Reichlin e pochi altri) per capire immediatamente di quale stile stiamo parlando.
Se un tempo era la politica a scandire il ritmo dei comportamenti privati (stesso discorso si poteva fare con i grandi democristiani), oggi il mondo moderno ha (solo apparentemente) fatto saltare le marcature. In realtà, la sinistra non si è ancora pacificata con quell’altra vita, più vicina ai divertimenti di tutti, ispirata a una quotidianità più lieve che induce a nuovi modelli di esistenza. E soprattutto – ecco il punto dolente – non è riuscita a definire il suo rapporto con il denaro, con tutto l’indotto che ne consegue. In una sola domanda: c’è ancora un senso di colpa sovrastante, a sinistra, nell’uso più largo del termine “divertimento”, in cui comprendere soldi, vacanze, relazioni, possesso di beni?
Ci sono due casi recenti, ma se ne potrebbero citare molti altri, che possono aiutare a capire. Il primo è quello di Massimo D’Alema, che poche settimane fa si è concesso una vacanzina in Engadina in compagnia di amici. Com’è come non è, il presidente del Copasir è stato paparazzato e poi cucinato sulla prima pagina di “Chi”, rivista di casa Berlusconi. Non solo. Alfonso Signorini, che ne è il direttore, ha rilanciato la questione su Canale 5 all’interno di “Kalispera”, la sua trasmissione. Giocando anche un po’ volgarmente sui comunisti e, appunto, sull’attitudine storica a una certa sobrietà, ha mischiato Saint Moritz e sciarpe di cachemire, proponendole come evidenti testimonianze di un tradimento politico, in questo spalleggiato dal Cavaliere come in uno sketch tra Campanini e Walter Chiari.
Il dramma è che D’Alema ci è cascato con tutte le scarpe. Senza un filo di ironia, ma senza neppure la consapevolezza piena del suo diritto assoluto a una vita piacevole, ha cominciato a traballare prima sulla sciarpa, negando il cachemire e opponendo la lanaccia (ormai anche l’oviesse ha del buon cachemire a 29,90), e poi negando di soggiornare proprio in Saint Moritz e di essere lì solo per una gitarella (in compagnia di persone per cui è stato nuovamente criticato). Insomma, una vera caporetto. Ma anche un episodio estremamente illuminante sul famoso “senso di colpa”.
Qualche giorno fa, un’altra icona della sinistra nostrana, Michele Santoro, viene punzecchiata da Maria Laura Rodotà per la scelta di mandare la sua bambina “a una scuola francese della Roma benissimo”. Anche in questo caso, ironia zero. Il conduttore verga un’ottantina di righe nelle quali nega il carattere privato di quella scuola e poi rivendica, sostanzialmente, il suo diritto alle piacevolezze della vita, come un buon vino o una bella macchina. La Rodotà resta dell’idea che uno famoso di sinistra potrebbe dare il buon esempio mandando i figli alla pubblica. Stop.
Si potrebbe proseguire a lungo, ricordando magari la Melandri ballerina nella villa di Briatore a Malindi, ma è utile fermarsi e cercare di capire. Non vivere serenamente una certa condizione sociale, che è solo apparentemente in contrasto con un’idea politica, porta a due considerazioni: la prima è che evidentemente non si considera legittima quella nuova condizione, che non c’è la consapevolezza interiore di averla meritata, se poi ce ne si vergogna. La seconda è che la sinistra, allora, non ha fatto davvero ancora i conti con il mercato, con l’idea liberale della concorrenza delle idee, delle merci, delle opzioni di vita e di stili. È rimasta provinciale, insomma.
Per cui, meglio risolverla alla “Totò, Peppino e la malafemmina”, con relativa lettera: «…punto, punto e virgola, punto e un punto e virgola! Che non si dica che siamo provinciali».