Di fronte alle rivolte che attraversano il Nord Africa e il Medio Oriente tremano tutti i regimi, nessuno escluso. Tremano le repubbliche ma anche le monarchie non si sentono più al sicuro. C’è però qualcuno che, da qualche settimana, ha iniziato a tremare più forte di altri. E quel qualcuno è l’Arabia Saudita, il principale anello del “cordone sanitario” sunnita storicamente costruito per arginare le ambizioni geopolitiche dell’Iran. Nel Regno dal suolo sacro, nelle città di La Mecca e Medina, si incrociano due circostanze potenzialmente esplosive. La prima è più strutturale, la seconda strettamente contingente.
Quest’ultima riguarda evidentemente la moltiplicazione dei focolai di instabilità attorno e dentro al territorio saudita. Non solo lo Yemen, ma anche il Bahrein e l’Oman stanno conoscendo turbolenze senza precedenti, cui si associa ovviamente l’onda lunga delle rivolte in Nord Africa, che non stanno risparmiando nemmeno quei regnanti che possono vantare una discendenza di sangue dal Profeta Maometto, come il re di Giordania Abdullah II e quello del Marocco, Mohamed VI. Qualche giorno fa è rientrato da una lunga degenza all’estero il monarca saudita Abdullah, operato alla schiena negli Usa e in convalescenza da quasi un anno in Marocco. E’ stato accolto festosamente dal suo popolo, ma lontano dalla capitale lo scenario di sicurezza è tutt’altro che sereno. Il re ha deciso di mettere in campo una “strategia preventiva” per arginare le richieste dei gruppi di opposizione politica (che chiedono l’avvio di una riforma in senso costituzionale della monarchia) e religiosa (gli sparuti, ma aggressivi gruppi sciiti presenti nel Paese). Lo ha fatto con la più classica delle combinazioni tra carota e bastone, elargendo significative prebende in termini di stipendi per l’enorme massa di impiegati pubblici e ordinando l’arresto dei sediziosi più agitati.
Tra questi, un arresto preventivo merita particolare attenzione: quello di un presule sciita nel distretto orientale di Hafouf. L’imam avrebbe, nel corso dell’ultimo sermone del venerdì, delegittimato la monarchia, chiedendo maggiori diritti per le popolazioni di fede sciita nel paese. Riad è particolarmente preoccupata della possibile degenerazione della rivolta interna al vicino Bahrein, dove il 20% di popolazione sunnita mantiene il potere escludendo l’80% di sciiti, vicini al regime iraniano. La provincia nord orientale dell’Arabia Saudita, dove si produce molto del greggio, è anche essa a maggioranza sciita e l’Iran, dopo le rivolte dei giorni scorsi, ha già ammonito Riad di stare attenta a come si muove in quest’area. Qui sono stati schierati dieci mila uomini dei servizi di sicurezza in vista della protesta di venerdì, primo giorno della rabbia nella storia del Regno.
Questa delicata congiuntura interna si incrocia con il problema più strutturale della difficile successione al potere. La recente trasferta dell’ottantaseienne monarca Abdullah negli Stati Uniti per cure mediche (ma l’età esatta da questa parti non è così certa) conferma una volta di più tali preoccupazioni, associate alle ormai conclamate condizioni precarie del legittimo successore al trono, l’ottantaduenne Principe Sultan bin Abdul-Aziz. Nelle settimane di assenza del sovrano, è stato proprio il Principe Sultan a dover rientrare a Riad per espletare l’ordinaria amministrazione di governo. Sultan riveste anche le cariche di Vice primo ministro, ministro della Difesa e dell’Aviazione e ispettore generale del Regno. A partire dal 2005, quando Abdullah è salito al trono a seguito della morte del suo predecessore, Re Fahd, il Paese è impegnato a gestire una lenta transizione da una generazione all’altra. La famiglia Al-Saud è composta da oltre 5 mila persone e molti dei potenziali eredi al trono sono anche loro ottuagenari. Oltre a Re Abdullah, ci sono 19 figli del fondatore della monarchia saudita moderna ancora in vita, ma dei quali solo quattro possono essere considerati adatti a succedere all’anziano monarca. La stabilità della seconda generazione può essere attribuita essenzialmente al ruolo svolto da tre rami della famiglia, che fino ad oggi si sono bilanciati nella divisione del potere. Il ramo Faisal, che discende dal successore di Re Saud, Abdul-Aziz al-Saud; il ramo Abdullah, ovvero la discendenza dall’attuale regnante; e il ramo Sudairi, che discende dall’ottava moglie del fondatore, Principessa Hassa bin Ahmad al-Sudairi.
Il ramo Faisal include esponenti di spicco della monarchia, quali il Principe Saud, attuale ministro degli Esteri, il Principe Khalid, Governatore della Mecca, e il Principe Turki, già capo dei servizi segreti dal 1977 al 2001 e Ambasciatore a Washington tra il 2003 e il 2006. Il ramo Abdullah è numericamente più ristretto ma gestisce una fetta rilevante di potere. In particolare, uno dei figli del Re, Mitab Bin Abdullah, è stato di recente nominato a capo del Sang (Saudi arabian national guard), uno degli organismi più potenti e determinanti per il controllo sulla sicurezza nazionale. Il ramo Sudairi ha gestito tradizionalmente un potere sproporzionato rispetto alla propria consistenza, in parte dovuto al fatto che il patriarca, Re Fahd, ha governato ininterrottamente dal 1982 al 2005. A questo ramo appartengono altre personalità molto rilevanti della monarchia, tra cui il Principe Sultan, il vice ministro della Difesa, Principe Abdul Rahman, il ministro degli Interni Principe Naif, il governatore di Riad, Principe Salman. In termini di successione, particolarmente rilevante è infine il ruolo che verrà svolto dal “Consiglio della Fedeltà”, creato nel 2007 per volontà dello stesso Re e con l’obiettivo di evitare divisioni fratricide in caso di morte o interdizione del monarca e del suo legittimo successore. Il Consiglio è operativo da poche settimane, a seguito della nomina dei suoi 35 membri (16 figli del sovrano e 19 nipoti).
L’Arabia Saudita trema. E con essa l’intero architrave dell’economia mondiale e degli interessi strategici globali. La caduta, o comunque un forte indebolimento, del tassello saudita nel domino mediorientale spianerebbe la strada ad un potenziamento ulteriore dell’influenza sciita in tutta la regione oltre a portare il prezzo del greggio a livelli insostenibili. Qui è nata Al-Qaida, qui c’è il centro religioso ed economico del mondo sunnita, ma qui è basato anche il cuore degli interessi petroliferi americani nel Medio Oriente. E qui si rischia di giocare presto la battaglia determinante per il futuro assetto della regione. Se venerdì i sauditi useranno la forza, se spargeranno del sangue, soprattutto se molto sangue, l’imbarazzo di Obama (si può trattare Gheddafi in un modo e i sauditi in un altro?) sarà l’ultimo dei problemi.