Sono ormai sessantatré anni che Israele è una realtà del Medio Oriente. Eppure la regione che avrebbe dovuto essere focolare sicuro per il popolo ebraico si è rivelata sin dalla nascita terra ostile e marziale. Nel 1948, il neonato stato di Israele poco si accordava alle atmosfere dell’antico Levante, ma proprio lì fu deciso che sarebbe cresciuto. E con il crescere dello stato, nacque anche un dilemma che si sarebbe rivelato poi ricorrente: se fosse meglio che Israele orientasse le sue energie nel tentativo di placare l’ostilità dei suoi vicini e divenisse esso stesso parte integrante della regione, o se fosse più opportuno che si considerasse un’oasi, giudicando utopia l’idea di integrazione.
Integrazione o separazione? Tema topico della politica estera israeliana, la questione è sempre stata di importanza vitale. Nonostante i lungimiranti tentativi di Ben Gurion di dar vita a “un’alleanza periferica” con entità non arabe in Medio Oriente (Iran, Turchia e Sudan cristiano), fino agli accordi di pace con l’Egitto di Sadat, fino ai primi anni ottanta, l’integrazione è rimasta una visione puramente onirica. Gli stati limitrofi insistevano con le politiche di negazione dell’“entità sionista” nella convinzione della sua vicina sconfitta. Di conseguenza Israele ha cercato alleati economici e politici in realtà geografiche più lontane. Solo dopo quasi trent’anni dalla fondazione, la pace con l’Egitto e successivamente con la Giordania hanno cambiato gli equilibri e reso finalmente reale l’idea che, al di là di una pura individuazione geografica, lo stato ebraico possa davvero essere parte del Medioriente. Gli accordi di Oslo del 1993 hanno aperto un nuovo corso economico, ovvero l’inizio di relazioni commerciali in Medio Oriente e Nord Africa (Mena) che hanno creato aspettative del tutto nuove nella leadership israeliana dell’epoca. L’idea di un “nuovo Medio Oriente”, in grado di svilupparsi su basi economiche per poi espandersi in ambito politico, ha preso piede con grande entusiasmo. Dopo decenni di muta ostilità, l’integrazione è sembrata improvvisamente possibile. Ma sono bastati meno di due anni perché queste neonate illusioni cadessero nuovamente nel triste vuoto dell’isolazionismo nella regione. L’avvicendamento dell’orientamento politico e la diffidenza dei Paesi arabi che hanno visto nel tentativo di leadership economica israeliana un nuovo tipo di “imperialismo economico” hanno archiviato ogni tipo di speranza in un nuovo ordine medio orientale che potesse includere Israele.
A seguito del fallimento dei progetti sviluppati durante il periodo in cui il Mena (e Oslo) è rimasto in vigore, l’opinione pubblica israeliana si è convinta che l’isolamento sia l’unica strada percorribile. Qualsiasi sforzo, diplomatico, politico o economico, non ha mutato la concezione che gli stati medio orientali hanno di Israele: una macchia estranea su un prezioso mosaico antico. Di conseguenza, la politica estera israeliana si è progressivamente radicalizzata nel convincimento che la strategia migliore sia una deterrenza totale che non lascia spazio ad alcun tipo di progetto diplomatico.
Il 2011 è però iniziato con un sensazionale colpo di scena. Medio Oriente e Nord Africa sono attraversati da un tumulto apparentemente inarrestabile. La culla della civiltà si è trasformata in terra di rivoluzioni e non solo l’ordine medio orientale ma anche quello mondiale potrebbero subire profondi cambiamenti. Cosa scaturirà da questa ondata di rivolte popolari e dalle repressioni che tentano di arginarle ancora non è chiaro. Che il diritto a manifestare, tra i capisaldi dei regimi democratici, porti all’istituzione di ordinamenti politici più libertari è assai incerto e la storia ne dà chiare testimonianze. Ciò che è evidente piuttosto è l’atteggiamento attonito e inerte dell’Occidente a fronte di un tale vento di cambiamenti: osserva, estremamente preoccupato, e mantiene una posizione del tutto equivoca e non proficua.
Nell’esatto epicentro dei terremoti, Israele rimane invece silenzioso. Preoccupato di perdere gli unici due preziosi e a lungo ricercati alleati della regione e di assistere alla radicalizzazione dei governi di altri Stati limitrofi, rimane passivo di fronte al trascorrere degli eventi, limitandosi a soppesare ogni singola notizia, ricordando che l’ultima istituzione di un “regime democratico” in Medio Oriente ha portato all’elezione di Hamas. Eppure, accanto alla possibilità di un futuro più instabile del presente, vi è anche l’entusiasmante opportunità di un avvenire nuovo, fresco e trascinante. La testimonianza di una nuova primavera dei popoli, e questa volta non in Europa ma in Medio Oriente. In un presente abitato da incertezze e attesa, Israele dovrebbe forse considerare anche la possibilità di un “Nuovo Medioriente”. Un Medio Oriente dove Israele potrebbe non essere più l’unica democrazia della regione, dove i Paesi vicini potrebbero condividere i medesimi sistemi politici e dove, finalmente, Israele potrà essere parte integrante della regione a cui appartiene. Perché non sperare che forse sia davvero arrivata l’ora di un “nuovo Medio Oriente”?
*giornalista, ha scritto per il giornale israeliano Haaretz e per Vanity Fair Italia