Ai lavoratori di Parmalat non piace il latte di Stato

Ai lavoratori di Parmalat non piace il latte di Stato

Nella confusa situazione di stallo che la politica e le banche hanno creato attorno alla Parmalat, i lavoratori del gruppo di Collecchio e i loro rappresentanti sindacali si distinguono per realismo e pragmatismo. Ieri hanno annunciato che il 16 maggio incontreranno la Lactalis per «avviare un confronto sulle reali intenzioni della multinazionale francese e sulle prospettive produttive e occupazionali che verrebbero messe in campo per la Parmalat».

È uno scatto in avanti, proprio mentre sale l’attesa per un ritorno della contesa su binari di mercato. Ma anche un approccio concreto e senza «pruriti sciovinisti», dicono, ai progetti industriali del colosso agroalimentare di proprietà della famiglia Besnier. Soprattutto una visione chiara delle priorità: conta solo la tutela dei lavoratori e la promozione dell’occupazione, ripetono, consapevoli che «per fare questo ci vuole «crescita e quindi investimenti». Cioè un atto di fiducia. Non manca una spruzzatina di scetticismo e ironia sul “latte di Stato”, come è stato ribattezzato il progetto caro al ministro Giulio Tremonti e al banchiere Corrado Passera (Intesa Sanpaolo), difensori dell’italianità della Parmalat. Anche se, va ricordato, la larga maggioranza della società è in mano a investitori esteri sin dalla fine del 2005, quando l’azienda è uscita dal crac ed è stata quotata in Borsa.

«Vedo con sospetto che qualcuno si alzi all’improvviso sbandierando un certo marchio italico su Parmalat, quando negli ultimi anni a nessuno è interessato nulla dell’italianità», dice a Linkiesta Augusto Cianfoni, segretario generale della Fai, la federazione della Cisl che rappresenta i lavoratori del settore agroalimentare. 

La posizione dei lavoratori della Parmalat si riflette nei «due requisiti che sono stati fissati recentemente nel tavolo di concertazione fra sindacati e il ministero dello Sviluppo economico, cioè unicità del gruppo e sviluppo industriale», riassume in breve Stefania Crogi, segretario generale della Flai-Cgil, il maggior sindacato del settore agroalimentare, primo dentro la stessa Parmalat. A prescindere dall’italianità? «La nostra posizione è indipendente dall’assetto della proprietà, noi abbiamo chiesto un incontro a Lactalis dal momento che oggi è l’unico azionista industriale di Parmalat, il resto è proprietà diffusa». Se e quando sarà pronta la cordata italiana, «parleremo anche con loro a fronte di piani industriali di sviluppo». A oggi, concordano le fonti sindacali, sembra esserci solo un piano industriale: «quello di Lactalis». 

Del resto, i contatti fra sindacati e i francesi sono in corso da un po’. «Se vediamo Lactalis complementare al business di Parmalat, non è perché abbiamo fatto analisi a braccio  – spiega Cianfoni – ma perché c’è stato uno studio e un ragionamento». Con la «prudenza necessaria» in questa fase, Cianfoni si spinge a dire che «Lactalis non può essere considerata ostile né dal paese Italia né dalla Parmalat». 

Il gruppo francese è il primo socio della Parmalat con il 28,9 per cento. Secondo le indiscrezioni di mercato, sta valutando l’opportunità di lanciare un’offerta pubblica su tutta la società con l’obiettivo di integrarla con le attività casearie che detiene in Italia (Galbani, Cademartori, Invernizzi). Dalle riunioni che si sono svolte ieri, però, non è trapelato nulla: vige la consegna del silenzio fin quando i Besnier non prenderanno una decisione. Lactalis si contrappone una cosiddetta “operazione di sistema” (il progetto “Latco”) promossa dalla banca Intesa Sanpaolo e avallata da Giulio Tremonti, che ha già fatto adottare al governo alcune leggi ad hoc. «Ci si è fatti prendere dalla sindrome di Annibale alle porte – aggiunge Cianfoni – cosa che in un’economia globale fa sorridere». 

Il ministro dell’Economia Tremonti è convinto di dover difendere l’italianità della Parmalat ed è intenzionato a impegnare nel progetto circa 500 milioni di euro tramite la Cassa Depositi e Prestiti. All’iniziativa dovrebbero partecipare, oltre a Intesa e allo Stato, anche Bnl, Unicredit, Mediobanca e altri investitori, mentre sembra rinviato a una seconda fase l’ingresso della Granarolo, principale concorrente di Parmalat, controllato dalle cooperative di allevatori. Insieme diventerebbero l’operatore dominante nel mercato italiano del latte, con una quota di mercato fra il 50% e il 60 per cento. «Sono dubbiosa e titubante sul fatto che lo Stato è entrato a gamba tesa dopo anni e anni di politiche che andavano nella parte opposta. Sembra di tornare all’Iri, perché l’intervento della Cdp questo è, e in più si parla di investimento delle casse previdenziali, sono basita», confessa Crogi.

I tre sindacati confederali dell’agroalimentare condividono la contrarietà a qualsiasi operazione di pura logica finanziaria, che «serva per redistribuire il famoso tesoretto (Parmalat ha in cassa liquidità per 1,4 miliardi), senza un piano industriale di crescita». E la sfida per rilanciare la Parmalat «non può essere affidata alla finanza», ammonisce il segretario generale della Uila-Uil, Stefano Mantegazza. Proprio Mantegazza, lo scorso 8 aprile, è stato il primo fra i sindacalisti a uscire allo scoperto. La fusione tra Parmalat e Granarolo, ha detto, «sarebbe sul versante industriale e occupazionale una vera tragedia».

«L’Italia non ha bisogno di un campione nazionale del latte, come qualcuno ha dichiarato, perché ne ha già due: Parmalat e Granarolo, e purtroppo in questo caso l’unione non farebbe la forza», osserva Mantegazza, secondo cui servono più profitti e più occupazione «e ciò si può ottenere solo valorizzando i nostri marchi migliori all’estero e non rinchiudendoci nelle quattro mura di casa nostra». Pregiudizi verso Granarolo e il mondo delle cooperative? «Tutt’altro – ribatte Cianfoni – abbiamo ottime relazioni industriali e consideriamo la controparte un interlocutore di grande affidabilità». Ma i due business sono troppo simili: «per quanto possa andare bene, è ineluttabile che se ci sono due stabilimenti vicini, per logica industriale uno dei due deve morire, e quello che resta non prende i dipendenti dell’altro».

Sul piano finanziario, anche la cordata italiana sta pensando a un’Opa, che però, a differenza di quella francese, sarebbe limitata al 60% del capitale. In ogni caso, dopo i provvedimenti politici a favore della cordata italiana, la Borsa ha fiutato il ritorno della contesa su binari di mercato e ha premiato i titoli Parmalat con un rialzo dell’1,86% a 2,3 euro.  

Alle suggestioni strategiche e neo-nazionalistiche di Tremonti, che davanti alla commissione Finanza della Camera ha difeso i provvedimenti in favore dell’italianità delle imprese, non credono nemmeno gli industriali. L’imprenditore Diego Della Valle non nasconde che gli fa specie che «qualcuno con un decreto ci dica cosa si può fare e cosa no».  

Qualche settimana fa anche la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha espresso le stesse convinzioni, sia pure in termini più istituzionali rispetto allo scalpitante Della Valle. Singolare che in questa vicenda padroni e operai, chi investe e chi lavora, siano perfettamente allineati e non abbiano paura dello straniero. All’opposto cioè di  governo e banche, istituzioni che il denaro per lo più lo intermediano.

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