Forse l’opposizione ad Assad è pronta a imbracciare le armi: sarebbe la guerra civile. Un’idea che, con cautela, lascia trapelare Robert Fisk in un articolo di ieri sull’Independent. «Ogni notte, la televisione di Stato siriana è uno spettacolo dell’orrore. Cadaveri nudi con ferite multiple di proiettili. Tutti soldati siriani, insiste la tv, assassinati dalle “perfide bande armate di criminali” vicino a Deraa». Come sottolinea Fisk, quei soldati qualcuno li ha uccisi davvero «Se sono vittime della vendetta di familiari che hanno perso i loro cari a causa della polizia segreta, significa che l’opposizione è pronta per usare la forza contro i loro aggressori. E, se davvero ci sono gruppi armati che girano per il Paese, allora, il regime di Assad è sulla strada di una guerra civile». È uno scenario possibile?
«Non credo», sostiene Antonino Pellitteri, esperto di Siria dell’Università di Palermo: «Le manifestazioni sono di tutta la popolazione, rivolte a ogni etnia». Gli slogan erano fondati su “unità, libertà e democrazia”. La risposta del presidente è stata fomentare le divisioni e manipolare il fantasma del terrorismo, o del complotto internazionale. «E invece partecipano in tanti, anche in zone in cui i gruppi confessionali sono diversi, come nei dintorni di Damasco» continua Pellitteri.
In altri casi, in realtà, ha funzionato, soprattutto presso i ceti medio-borghesi. In città come Aleppo, ad esempio, la minoranza cristiana è forte e occupa posizioni di rilievo. Un cambiamento di regime significherebbe, nel migliore dei casi, un rovesciamento sociale. Nel peggiore, la cancellazione della loro etnia. Più spaventati dal caos che da Assad, preferiscono non partecipare alle manifestazioni di piazza. Per quanto riguarda i soldati uccisi, anche i manifestanti hanno una loro versione. Sarebbero vittime dei gruppi shahbiti, le milizie del partito baathista. Puniti perché si sarebbero rifiutati di aprire il fuoco contro la popolazione civile. Del resto, è vero che Assad è molto attento a quanto accade nelle città sul confine con il Libano, come Qatana, città che ospita importanti basi militari ed è abitata, in larga parte, da soldati e civili che lavorano nelle caserme. Una rivolta a Qatana, come è accaduto lo scorso venerdì, lascia presagire uno strappo all’interno dell’esercito. Sarebbe molto grave per il regime. «In ogni caso», puntualizza Pellitteri «la presenza di gruppi armati isolati che girano nella regione è probabile».
Le armi, ricorda, ci sono, e non è difficile procurarsele. «Ma non sono in grado di influire sulle rivolte, né di comandarle». Sono movimenti che riguardano tutta la popolazione. Piuttosto, ipotizza, il vero scontro, al momento, potrebbe essere all’interno del partito Baath. «Lui è latitante. Da qualche tempo appare solo per comunicati, senza fare interventi specifici. Sembra voglia occuparsi della normale amministrazione. Ma la situazione è ben diversa». Del resto il dissenso, anche all’interno del partito, è forte. Assad ha difficoltà a mantenerlo coeso. A Banias, per esempio, si sono dimessi 30 membri, seguiti, ieri, da altri 203, per protesta contro la repressione violenta delle manifestazioni.
L’esercito come sempre sarà l’ago della bilancia. «È sempre stato tenuto in disparte. Le manovre più delicate erano affidate ai comitati del regime. Se è vero che si sta diffondendo il dissenso contro il governo anche tra i ranghi militari, allora la defezione potrebbe avere conseguenze serie». Come in Egitto, puntualizza. Solo che, in questo, caso, l’impatto della caduta del regime avrebbe un effetto enorme. La Siria mantiene legami strutturali con le politiche, gli attori, i principali conflitti dei paesi circostanti. Le conseguenze della fine di Assad ricadrebbero sulla situazione del Libano e di Hezbollah, sul conflitto Israelo-Palestinese, con Hamas, in Iran e in Iraq. Coinvolgerebbero la Turchia, gli Stati Uniti, e arriverebbero fino a Mosca. Una situazione che sembra davvero complessa.