È uno strano intreccio fra banche, lobby, manager e politici quello che dice di volere perseguire l’interesse nazionale «difendendo l’italianità delle imprese». L’obiettivo è fumoso ma i mezzi del “Sistema” sono chiari: condurre in porto o tenere in vita affari al riparo dalle regole del mercato, non di rado riscrivendo le leggi.
È toccato alla Parmalat alzare per prima bandiera dell’italianità. La stessa azienda, cioè, che con la ristrutturazione seguita al crac del 2003 aveva segnato un nuovo esemplare inizio contro le collusioni bancarie e politiche del passato. Ma proprio il “salvatore” della Parmalat, il commissario e poi amministratore delegato Enrico Bondi, ha riaperto un varco alla politica.
Prima è stata varata una leggina per impedire la distribuzione di extradividendi e poi un’altra ancora per rinviare assemblee societarie già convocate, così da impedire che il gruppo francese Lactalis, primo azionista di Parmalat con il 28,9%, conquisti la maggioranza del consiglio di amministrazione. Oggi poi il Tribunale di Parma ha respinto l’istanza di sospensione presentata dai francesi contro la delibera del cda di Parmalat che ha rinviato l’assemblea.
Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha colto l’occasione per rinverdire la stagione delle partecipazioni statali (oggi si dice “strategiche”). Nella cordata patriottica promossa da Intesa Sanpaolo, la banca di sistema per definizione, dovrebbero fare parte la Cassa Depositi e Prestiti (controllata dal Tesoro), tramite un apposito fondo strategico, la Granarolo (controllata dalle cooperative emiliane e partecipata dalla stessa Intesa) e altri investitori italiani ed esteri da individuare. Circolano diversi schemi dell’operazione (con o senza il coinvolgimento della Lactalis), ma tutti hanno un punto in comune: la vendita degli asset di Granarolo a Parmalat per 500 milioni e il reinvestimento della somma in una holding a controllo italiano. Un modello già collaudato, con risultati poco felici, in Telecom Italia.
Il modo in cui i francesi hanno sbaragliato il campo la dice lunga sia sulla percezione della valenza strategica di Parmalat sia sulla capacità del Sistema di muoversi in un contesto di mercato. Collecchio è una public company dalla fine del 2005: fino a quando tre azionisti esteri stabili non hanno intrapreso una battaglia per cambiare il management, a nessuno era mai venuto in mente di proporsi con un progetto industriale. Unica eccezione: Granarolo, che è un diretto concorrente della Parmalat. Insieme, le due aziende avrebbero fra il 50 e il 60% del mercato italiano del latte (fresco e a lunga conservazione).
L’operazione incontrerebbe serie difficoltà davanti alle autorità antitrust ed è significativo che in passato Bondi abbia sempre bocciato l’idea, caldeggiata invece da Intesa Sanpaolo. A causa di sovrapposizione di impianti, la fusione Parmalat-Granarolo, ha ricordato il segretario della Uila-Uil, Stefano Mantegazza, sarebbe «sul versante industriale e occupazionale una vera tragedia».
La cordata italiana ha avuto un’ultima chance di entrare nella partita secondo le regole di mercato: bastava comprare il 15,3% in mano ai tre fondi esteri Mackenzie, Skagen e Zenit sborsando 750 milioni. Sul mercato bisogna però saper prendere le decisioni quando è il momento di prenderle. E invece, approfittando dei tentennamenti dei banchieri di sistema, i francesi hanno messo a segno il colpo. Rilevando quel 15,3%, Lactalis, che già disponeva di circa il 14%, si è portata vicina alla soglia d’Opa (30%).
Per i risparmiatori coinvolti nel crac, e che da Bondi hanno ricevuto solo azioni della nuova Parmalat, tutta la vicenda è una beffa: non possono incassare, via dividendo, i risarcimenti che Bondi ha ottenuto dalle banche (la liquidità è stata blindata per legge), e non hanno una dignitosa via d’uscita con un’Opa. Stando alle indiscrezioni, a un’offerta pubblica limitata al 60% del capitale starebbe pensando invece il Sistema. Perché questo tipo di Opa, detta preventiva parziale, sia autorizzata dalla Consob, è necessario che i soggetti che la promuovono non abbiano comprato più dell’1% nei dodici mesi precedenti. Visto l’andazzo, però, se mai ci fossero stati acquisti superiori al tetto stabilito, l’ostacolo potrebbe essere rimosso con un altro ritocco legislativo su misura: dalle leggi ad personam alla leggi ad cordata.
In qualcosa di simile, se non addirittura in un intervento della Cassa Depositi e Prestiti, qualora ce ne fosse bisogno, sperano anche gli azionisti “di sistema” della Telecom Italia. La compagnia telefonica, privatizzata nel 1998, è oggi controllata dalla holding Telco, partecipata da Intesa Sanpaolo, Mediobanca e Generali e dal colosso spagnolo Telefonica. Ma si tratta di un controllo vulnerabile: il 22,5% in mano a Telco potrebbe essere facilmente superato.
All’assemblea di domani è attesa una grande partecipazione di investitori istituzionali esteri, cui fa capo quasi il 40% della società. Il fatto era largamente prevedibile da quando, all’inizio di quest’anno, è diventata pienamente operativa in Italia la direttiva europea sui diritti degli azionisti, che rende più agevole la partecipazione alle assemblee delle società quotate. Ma il Sistema è arrivato impreparato alla novità. Se le indiscrezioni circolate sono corrette, molti fondi d’investimento esteri che rappresentano fra il 18 e il 23% del capitale, avrebbero deciso di votare in massa per la lista di minoranza presentata da Assogestioni, la lobby dei fondi d’investimento italiani (in buona parte gestiti da società del gruppo Intesa e del gruppo Unicredit).
In caso di ribaltone, il risultato paradossale sarebbe che la lista di minoranza conquisterebbe la maggioranza del cda (12 su 15), mentre Telco verrebbe scalzata ottenendo solo i tre posti riservati alla minoranza. Un’alta partecipazione dei fondi (in misura superiore al 50% del capitale presente) avrà un altro effetto: verranno meno i presupposti del controllo di fatto (più del 50% dei voti per tre assemblee consecutive) che un socio, la Findim di Marco Fossati, ha di recente sostenuto per obbligare Telco a consolidare Telecom nei propri bilanci. Secondo alcuni osservatori, la mobilitazione dei fondi sarebbe stata sollecitata da Bernabé e dai soci Telco per sminare il rischio di un consolidamento, ma potrebbe sfuggire di mano.
Quale che sia il risultato dell’assemblea di domani, comunque, il bilancio dell’operazione di sistema concepita nel 2007 per subentrare alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera resta impietoso. Il 25 ottobre 2007 il sistema Mediobanca-Generali-Intesa ha investito in Telecom circa 5,144 milioni di euro (fra versamenti in denaro e conferimenti di azioni). Nel bilancio chiuso al 30 aprile 2010 il pacchetto del 22,5% è stato valorizzato 6,6 miliardi di euro con un prezzo unitario di carico di 2,2 euro. In Borsa le azioni Telecom valgono la metà. Valutando la partecipazione a prezzi di mercato (1,07 la chiusura di oggi), il valore del pacchetto scende a 3,3 miliardi mentre il patrimonio netto di Telco finisce sotto lo zero: negativo per 10 milioni di euro. Al netto delle politiche contabili, dunque, gli oltre 5 miliardi investiti tre anni fa perché Telecom rimanesse italiana sono andati in fumo. Perché preoccuparsi, però? Se le cose si mettono peggio, si può sempre chiamare zio Giulio. Con la Cassa Depositi e Prestiti ci pensa lui a sistemare il Sistema.