Gli Usa insegnano agli egiziani come scendere in piazza

Gli Usa insegnano agli egiziani come scendere in piazza

Piazza Tahrir, nel centro del Cairo, è tornata alla calma. I manifestanti, due mesi dopo le dimissioni di Mubarak, si sono ritirati. In parte, anche grazie alle concessioni del nuovo regime. Alcuni giorni fa, seguendo le richieste dei manifestanti, l’alta Corte Amministrativa del Cairo ha dichiarato sciolto il Partito Nazionale Democratico dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak, e ha ordinato la confisca dei suoi beni. Inoltre, i procedimenti contro lo stesso Mubarak, i suoi figli e gran parte del suo apparato amministrativo, stanno andando avanti. Anas al-Fiqqi, ex-ministro egiziano dell’informazione, che si trova agli arresti nella prigione di Tora, ha confessato alle autorità di avere due milioni di lire egiziane (circa 240.000 euro) nascosti in due conti in Svizzera. Le indagini riguardavano presunti casi di corruzione e riciclaggio. Ma non è finita: rischiano il processo per corruzione e abuso di fondi pubblici anche Ahmed Nazif, ex primo ministro, e Youssef Boutros-Ghali, ex- presidente delle finanze, entrambi rinchiusi nel carcere di Tora, al Cairo, insieme ad Alaa e Gamal, i figli del rais.

In Egitto qualcosa sta cambiando, o, almeno, i cittadini lo sperano. «La pace è una cosa provvisoria. Gli egiziani stanno a guardare le prossime mosse del regime», spiega Silvia Mollicchi, corrispondente per Peacereporter. La politica morbida del governo sta dando i suoi frutti, i segnali sono stati incoraggianti. Gli egiziani, poi, «come è logico, devono tornare alle loro attività». Ma non tutti. «Nella zona del Delta gli operai continuano gli scioperi e le proteste. Lì l’attività prevalente è la lavorazione del cotone. Prima protestavano anche altre categorie, come i medici».

Ma se il clima sembra in questi giorni un po’ più sereno, i giochi non sono ancora fatti. Innanzitutto, «se le promesse non saranno mantenute, la popolazione tornerà in piazza. Attivisti come il gruppo “Gioventù del 6 Aprile”, ad esempio, riescono a mobilitare molte persone». E proprio questi gruppi sono al centro della polemica. Le rivelazioni del New York Times, di alcuni giorni fa, raccontano di interventi di associazioni americane per fomentare le rivolte della primavera araba. Incluso lo stesso movimento “Gioventù del 6 aprile”. 

Secondo il quotidiano statunitense, gruppi come l’International Republican Institute e il National Democratic Institute, che fanno capo rispettivamente ai repubblicani e ai democratici, avrebbero fornito finanziamenti e corsi di formazione per l’utilizzo delle nuove tecnologie a gruppi e leader dei movimenti di protesta nelle regioni arabe. Insieme a loro, anche Freedom House, un’associazione no-profit.

Le attività di questi gruppi hanno spesso provocato tensioni tra gli Usa e molti presidenti mediorentali, che temevano che venisse messa a rischio la loro leadership, come spiega il New York Times. Però la connessione con le rivolte non è diretta. «Non li abbiamo finanziati perché si sollevassero. Ma abbiamo promosso lo sviluppo delle loro capacità, anche di creare relazioni», spiega nell’articolo Stephen McInerney, direttore esecutivo del Project on Middle East Democracy, un gruppo di pressione e ricerca con base a Washington. Gli fa eco Basem Fathy, egiziano, che ha contribuito a fondare il movimento della “Gioventù del 6 aprile”. «Abbiamo imparato come organizzare e costruire coalizioni. Una cosa che ci ha senz’altro aiutato, nel momento delle rivolte».

L’atteggiamento degli Stati Uniti, però, non sorprende gli esperti del settore. Paolo Branca, professore islamista dell’Università Cattolica di Milano, spiega a Linkiesta che è una policy piuttosto comune. «Anche a me è capitato che fosse il consolato Usa di Milano il più interessato ai miei studenti stranieri, molto più che Comune, Provincia o Regione». È una prassi comune, spiega, per gli States. «Selezionano studenti svegli, li invitano per soggiorni di studio. Forniscono conoscenze e metodi. Così, gli studenti, al ritorno nel loro Paese, cercano di diffondere quello che hanno imparato. In sostanza, cercano di costruire una lobby che favorisca il cambiamento democratico». Visti i cambiamenti provocati dai moviementi di piazza Tahrir, sembra che funzioni. Almeno per ora.