Il divide et impera di Assad non placa la rivolta siriana

Il divide et impera di Assad non placa la rivolta siriana

Anche ieri dopo l’ormai consueto appuntamento della preghiera in moschea, la folla in Siria si è riversata per le strade delle città per protestare contro il regime di Bashar el Assad. Un copione che si ripete da quasi un mese, ma che sta cambiando. I numeri, ad esempio, sono cresciuti: decine di migliaia hanno sfilato a Damasco: per la prima volta si è formato un corteo all’interno del centro della città, diretto verso piazza degli Abbasidi (poi disperso dalle forze dell’ordine con lacrimogeni). La protesta si è estesa in 46 paesi e città. Tra queste, spiccano Dara’a, e Homs, Aleppo ma anche Baniyas, Latakia, teatro di scontri recenti con le forze armate. Ma anche a Qumishli e Hasageh, città curde. Un allargamento significativo. Anche gli slogan sono diversi. Prima si chiedeva di abolire la legge sullo stato di emergenza, in vigore dal 1963 e mantenuta con il pretesto degli scontri con Israele, ora si invoca la fine del regime.

Un salto di qualità. Dovuto senza dubbio alla risposta balbettante del governo: prima con promesse, poi con cambiamenti timidi. «È caduta la paura» spiega Antonino Pellitteri, docente di studi islamici all’Università di Palermo, considerato uno dei massimi esperti italiani di Siria. In piazza «i siriani sono sempre più numerosi e sempre più stanchi. È una protesta collettiva, unitaria». Nel suo discorso all’assemblea, Assad aveva indicato tra i responsabili delle agitazioni gli eterni nemici: Israele e Stati Uniti. Agivano per inasprire il contrasto tra le fazioni della popolazione siriana, aumentare il disordine e far crollare il regime.

Il messaggio era chiaro: l’unica possibilità di stabilità è data dal governo. «In quel discorso Assad ha fatto un errore grave. Ha scelto di restare nell’ambito protetto dell’assemblea, mentre avrebbe dovuto rivolgersi al popolo. In questo modo ha rivelato la sua strategia. Da un lato ha promesso riforme e cambiamenti, senza apportarne però di significativi. Il nuovo governo non è un cambiamento vero, in questo senso». E poi? «Si è giocato diverse carte. Colpire i manifestanti, suscitare la ta’ifiya, lo scontro confessionale per dividere i ribelli». Che, per ora, non sembra funzionare.

Le manifestazioni non sembrano, al momento, avere spaccature. Né di carattere religioso né etnico. Il Washington Post riporta slogan come “Islamici e Cristiani uniti per il cambiamento”, i siti su Facebook sono frequentati da rappresentanti di entrambe le parti. È di poche ore fa il post, pubblicato sulla pagina facebook “The Syria Revolution 2011”, in cui si dice che le chiese siriane, a Pasqua, ricorderanno nelle celebrazioni, i morti e i prigionieri della rivolta. Il fronte sembra compatto. Anche la minoranza curda aderisce, come si è detto, marciando nelle città di Qumishli e Hasageh.

«Il frazionamento confessionale, però, c’è», spiega Pellitteri. «il potere è nelle mani della minoranza alawita, cui appartiene anche Assad». I membri sono posizionati nei punti chiave dell’economia dello stato e legati da una rete di clan e famiglie. La maggioranza della popolazione, però, è composta da sunniti. Nel groviglio religioso, le suddivisioni sono complesse. Nell’emisfero sciita, oltre agli alawiti, si trovano frange di scuola iraniana. Si aggiunga poi anche il ramo degli ismailiti, che abitano nella zona di Homs, e i drusi, il 3% dei siriani, i quali applicano una concezione radicale della religione e vivono nel sud del paese. E anche il mondo cristiano, che rappresenta il 10% della popolazione, è diviso, tra chiese di rito orientale (maroniti, greca-cattolica, cattolica siriana) e chiesa melchita.

Eppure le rivolte sono unite, e spontanee. «Forse qualche infiltrato, che cerca di cavalcare l’onda, c’è. Il regime all’inizio, ha cercato di trattare con i Fratelli Musulmani», continua. «Attraverso la mediazione della Turchia, ha fatto concessioni e compromessi. Ad esempio sull’uso del velo». Ma resta tuttora poco chiaro, spiega, il ruolo dei Fratelli Musulmani nelle rivolte di piazza. In Siria non sono seguiti come in Egitto, i loro capi sono stati a lungo fuori, o in prigione. Sembra che i manifestanti stiano crescendo: si stanno organizzando sempre meglio, senza voler delegare a gruppi e partiti. Le rivendicazioni, poi, sono politiche: eliminazione dello stato di emergenza, apertura ad altri partiti (oltre il Baath) e la liberazione dei prigionieri politici.

«Per fare un bilancio generale e qualche previsione», aggiunge Pellitteri, si può fare un’ultima considerazione. «Il regime si pone come unica soluzione possibile, e al momento questa situazione sembra accettata anche dai paesi vicini. Anche da Israele». L’incertezza del dopo Assad, imprevedibile, sembra spingere le nazioni alla prudenza e a mantenere l’assetto attuale. L’Iran lo soccorre, come ha rivelato due giorni fa il Wall Street Journal, fornendo in modo sotterraneo armi e know-how per sedare le rivolte. Il Libano, la Turchia, e i movimenti palestinesi, per ora sono solo spettatori. Così anche Giordania e Arabia Saudita. «Però la gente è stanca, le rivolte andranno avanti. E prima o poi dovrà lasciare, e allora, la cosa più probabile sarà una transizione guidata, dall’interno, e forse anche da fuori». Ma da chi, non è ancora dato sapere. 

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