L’Italia continua a blindare il wi-fi alla maggior parte dei suoi cittadini? Poco male, dato che l’internet tricolore continua a marciare spedito, nonostante gli odierni guai ad Aruba, il principale provider italiano. Non è solo una questione di iscritti a Facebook (già 16 milioni) o di video visualizzati su YouTube (200 milioni l’anno solo su smartphone). La web-economy sta diventando una business reale.
Per la prima volta qualcuno si è preso la briga di valutare l’impatto del fattore internet sull’economia italiana. Il Boston Consulting Group (Bcg), una multinazionale di consulenza di management, ha calcolato che internet vale il 2% del Pil italiano del 2010. In valori assoluti parliamo di 31,6 miliardi di euro. Il trend è in crescita perché nel 2009 la web-economy era stata stimata in 28,8 miliardi, pari all’1,9% del prodotto interno lordo. Ok, il committente dello studio è Google e il sospetto di un conflitto di interessi c’è. Ma l’analisi è dettagliata e i numeri in ballo sono così grossi da meritare attenzione.
Anche se il dato va preso con le pinze, secondo lo studio internet ha prodotto ricchezza almeno quanto il comparto della ristorazione. E sta alle calcagna dell’agricoltura, che ancora vale il 2,3% del Pil. Il sorpasso avrebbe un grande valore simbolico e comunque sembra solo questione di tempo. Secondo lo scenario più conservativo, nel 2015 il web varrà 59 miliardi di euro e 3,3 punti percentuali di Pil.
E-commerce, piccole e medie imprese e Pubblica amministrazione. Sembrano questi i tre fattori chiave dell’economia che corre sul filo di rame. Nel 2010 gli italiani hanno acquistato prodotti, servizi e contenuti digitali per 11 miliardi di euro. Il settore dell’abbigliamento è quello che ha accelerato di più (+43%), ma il più forte di tutti in rete rimane il turismo con 3,4 miliardi di euro di fatturato nel corso dell’ultimo anno.
Lo studio del Bcg riporta l’esempio di Groupon, il celebre sito dove è possibile fare acquisti di gruppo a prezzi scontati, visitato da 5 milioni e mezzo di utenti unici ogni mese. Il web produce anche effetti virtuosi sul commercio reale: il valore delle merci cercate in rete e acquistate nel mondo reale ha raggiunto i 17 miliardi di euro.
Il web premia gli imprenditori digitali? I numeri dicono di sì. Il report mette a confronto tre tipi di Pmi: quelle online, che su internet fanno semplice attestato di presenza con un sito web statico; quelle offline, cioè al di fuori della rete; quelle online-attive, che usano internet come volano per marketing e vendite. Chi ha capito le potenzialità della rete cresce, assume di più e ha maggiore visibilità all’estero. Negli ultimi tre anni, in media, le Pmi online-attive sono cresciute dell’1,2%. Mentre quelle offline hanno fatto registrato una contrazione del 4,5 per cento.
Per promuovere e vendere i prodotti in rete servono professionisti all’altezza: esperti di siti web, community manager per la presenza nei social network, persone che sappiano gestire i portali di marketing online. Il 73% delle imprese attive in rete hanno aumentato il numero dei propri dipendenti.
Poi c’è la Pubblica amministrazione, che solo ora si è svegliata e ha cominciato a utilizzare il web per velocizzare i tempi e risparmiare sulle spese correnti. Il Boston Consulting Group cita la Consip, la società del ministero dell’Economia nata nel 1997. La missione? Consentire alla Pubblica amministrazione di acquistare beni e servizi online, superando il vecchio sistema delle convenzioni e tagliando i costi di appalto. Nel 2009, attraverso Consip è passato il 50% degli acquisti online effettuati dai nostri amministratori: 2,4 miliardi su 5,1. Il risparmio medio è del 15-20 per cento.
La Consip è l’esempio che se si vuole innovare, anche e soprattutto per una riduzione generale delle spese, questo si può fare senza troppi ostacoli. Eppure, la società legata a Via XX Settembre rimane un singolo esempio virtuoso. Peccato, perché quando si vuole innovare, il Parlamento è sempre in prima linea: in fondo, sugli scranni di Montecitorio ci sono ormai più iPad che telefonini.