Mentre il mercato si fa cogliere dai ricorrenti timori per il destino dei paesi dell’europeriferia attualmente sotto la tenda ad ossigeno dell’assistenza finanziaria di Ue e Fmi, è utile lanciare uno sguardo a come sta comportandosi il rischio-Italia, il fortunato paese che a breve potrebbe essere sorpassato dalla Germania, nella problematica classifica dello stock di debito in valore assoluto. Il prossimo 26 Aprile Eurostat diffonderà infatti la prima notifica su debito e deficit pubblici nell’anno 2010. Da essa potrebbe emergere che, per Berlino, occorre aggiungere al debito pubblico ufficiale anche quello della bad bank utilizzata per rilevare i crediti tossici delle banche salvate dal governo federale, Hypo Real Estate su tutte. Se passasse questa (corretta) interpretazione, il debito tedesco salirebbe, in rapporto al Pil, dal 75,4 all’84,4%. L’occasione è propizia per permettere a Giulio Tremonti di segnalare al mondo che il nostro Paese non avrebbe più il terzo stock di debito del pianeta, espresso in valore assoluto, bensì il quarto.
Prosegue quindi la grande «remuntada» del Belpaese nella corsa a retromarcia che caratterizza le metriche di finanza pubblica del decadente Occidente. Qualcosa ci dice che l’economia tedesca sia attrezzata a reggere questa feral notizia, che giunge all’indomani delle previsioni pluriennali del governo italiano, contenute nel Documento economico e finanziario (Def), che per il 2011 certificano un rapporto debito-Pil del 120%. Ma noi abbiamo un’elevata ricchezza privata. Nelle ultime settimane si è verificato un forte rally del debito sovrano di Spagna ed Italia, nel differenziale con il Bund tedesco. Alcuni interpretano questo movimento come frutto di ricoperture dei gestori di fondi all’indomani degli accordi europei del 24 e 25 marzo, che hanno sancito la nascita dello European Stability Mechanism, il veicolo che dovrebbe gestire (Bundestag permettendo) i salvataggi sovrani in Eurolanda a partire da luglio 2013, sotto draconiane condizionalità.
Questa notizia segnerebbe una sorta di spartiacque e di cessato allarme per la periferia europea, con i money manager che avrebbero preso atto che la Spagna sta raggiungendo lusinghieri risultati di consolidamento fiscale, e che il settore ammalorato delle casse di risparmio iberiche (cajas) riuscirà a trarsi d’impaccio senza proibitivi esborsi pubblici. Quanto all’Italia, la tenuta dei conti pubblici sarebbe vista come indicativa della durevole capacità del Paese di non perdere il controllo del deficit. Quale che sia la fondatezza di questa considerazione, il differenziale tra Btp e Bund, sulla scadenza decennale, è passato dai 172 punti-base del 10 marzo agli attuali circa 130 punti-base. Ma le buone notizie terminano qui. Perché osservando da vicino l’andamento di Bund e Btp si coglie in realtà che il restringimento del differenziale è frutto di un aumento dei rendimenti sul titolo tedesco e di una sostanziale stabilità di quelli italiani. Il nostro Btp decennale continua infatti da mesi a stazionare in un corridoio compreso tra il 4,60 ed il 4,80%. L’onerosità media del debito, quindi, non cambia.
Per un Paese che ha un costo medio del debito di circa il 4,5% nominale, e che ha un Pil nominale che cresce di circa il 3% o poco più (il Pil nominale è infatti la somma di crescita reale ed inflazione), ciò significa che l’Italia resta con uno sbilancio negativo, cioè che siamo condannati (in assenza di un colpo di reni nella crescita) a rincorrere il saldo primario, cioè la differenza tra entrate e spese al netto degli interessi sul debito. Il tutto in un contesto di rendimenti di mercato in salita, per volontà della Banca centrale europea. Sembrano tecnicismi, ma si tratta in realtà della differenza che passa tra un paese fiscalmente sano (o risanato) grazie alla crescita economica, ed un paese condannato a manovre correttive più o meno dichiarate, per continuare a convincere i mercati della propria probità (o meglio, non colpevolezza) fiscale. Il rischio è quello di un circolo vizioso in cui continue strette fiscali correttive deprimono ulteriormente la crescita di un paese che è già fermo da troppo tempo, malgrado le professioni di ottimismo dell’esecutivo. I mercati guardano notoriamente al breve periodo, quello nel quale l’Italia strappa la sufficienza. Ma nel medio-lungo termine il rischio è quello di finire come la classica rana nella pentola piena d’acqua che viene portata gradualmente ad ebollizione, impedendo al batrace di saltar fuori dalla trappola mortale.