L’episodio più eclatante è stato il caso di Richard Williamson. Era il gennaio del 2009 e Benedetto XVI decise di togliere la scomunica ai quattro vescovi seguaci di Marcel Lefebvre. Tra di essi il britannico Richard Williamson. Bastarono poche ore ai giornalisti di tutto il mondo per scovare agilmente su internet le sue deliranti dichiarazioni di convinto negazionismo della shoah e delle camere a gas nei lager. Protestò la comunità ebraica, si risentirono gli uffici della Curia romana responsabili dei rapporti con gli ebrei, diverse conferenze episcopali in giro per il mondo recapitarono in Vaticano scorno e incredulità. Una tempesta che si quietò solo dopo mesi di chiarificazioni e consultazioni e che si concluse con un atto almeno altrettanto inedito per un romano Pontefice: una lettera ai vescovi di tutto il mondo per chiarire l’intenzione della revoca della scomunica e ammettere, tra l’altro, che il Vaticano avrebbe potuto gestire tempestivamente il problema se solo avesse prestato più attenzione a internet.
Non era la prima e non sarebbe stata l’ultima volta che Ratzinger “inciampava” in un incidente diplomatico e mediatico di portata globale.
La stampa già all’epoca si divise in diverse interpretazioni. In Italia, alcuni osservatori attribuirono la responsabilità alla sala stampa del Vaticano guidata dal gesuita Federico Lombardi, che non era stata in grado di “disinnescare” la notizia prima che esplodesse. Altri individuarono l’origine dei problemi nell’inettitudine della Curia romana, e in particolare della Segreteria di Stato vaticana del cardinale Tarcisio Bertone. All’estero, invece, gli editorialisti dettero quasi unanimemente la colpa a una persona sola: il Papa. “Avrebbe potuto essere l’Obama della cattolicità, invece si sta dimostrando il suo Bush”, fu il commento abrasivo della Sueddeutsche Zeitung. Per lo svizzero Le Temps, Ratzinger era, semplicemente, “un Papa tagliato fuori dalla realtà”.
La riflessione sulle “gaffes” di Ratzinger è divenuta, se non un vero e proprio genere letterario, un topos, un tormentone dentro e fuori il Vaticano, un argomento fisso nelle analisi sul Pontificato. Dalla bufera sorta nel mondo musulmano in seguito al discorso di Ratisbona alle critiche dopo il battesimo in mondovisione di Magdi Cristiano Allam, dalla sorpresa della beatificazione della controversa figura di Pio XII all’iniziale omissione della parola “shoah” nel discorso pronunciato ad Auschwitz, dalla cacofonia del cosiddetto “caso Boffo” alle lunghe polemiche sulla pedofilia, dalle nomine maldestre di alcuni vescovi alle frasi sui condom nel viaggio verso l’Africa, dall’avventata denuncia dell’attentato ai copti di Alessandria, che ha indisposto l’università islamica di al-Azhar, al prolungato silenzio sulla rivolta popolare in Maghreb: sono sembrati interminabili gli incidenti, minimi o eclatanti, evidenti o sottili, compiuti dal Papa tedesco. E, nell’indagare i motivi di questa idiosincrasia con i mass media, le analisi divergono profondamente.
Sandro Magister è stato il primo a definire “impolitico” il Papa tedesco, in occasione del discorso all’università di Ratisbona. Il noto vaticanista dell’Espresso, peraltro, ha apprezzato sia quel discorso che, in generale, lo stile di governo di Ratzinger e ha visto nel suo scarso appeal mediatico una riprova della sua passione per la verità evangelica, da proclamare anche quando scomoda. Agli incidenti del Papa hanno dedicato un dettagliato volume Andrea Tornielli e Paolo Rodari, intitolato, significativamente, “Attacco a Ratinzger”. I due vaticanisti di Stampa (all’epoca, Giornale) e Foglio si domandano: “Si è trattato solo di una serie di sfortunate coincidenze, aiutate dalle manchevolezze dei collaboratori di Ratzinger e dall’assenza di strategia comunicativa, o c’è di più?”. La tesi, neanche tanto velata, è che contro Ratzinger ci sono, se non complotti, vere e proprie campagne, culturali e mediatiche, che provengono dall’esterno della Chiesa cattolica, dai circoli liberal del cattolicesimo mondiale e – per inettitudine – dai suoi più stretti collaboratori. Commentando il libro di Tornielli e Rodari, il noto vaticanista statunitense John Allen, molto vicino a Navarro-Valls all’epoca di Wojtyla, ha commentato, sul National Catholic Reporter, che su una cosa tutti gli esperti intervistati dai due autori italiani sembrano concordare: “Che la strategia di Public Relations del Vaticano è spesso inadeguata”. Di diverso avviso l’editorialista del Corriere della sera Massimo Franco, che, in una impietosa ma lucida analisi della geopolitica vaticana, commenta: “Dietro le gaffe commesse negli anni più recenti dai vertici vaticani sarebbe riduttivo vedere soltanto una macchina comunicativa inadeguata o inceppata. C’è qualcosa di più: è come se il messaggio della Santa Sede fosse condannato al fraintendimento, se non all’incomprensione, da parte di opinioni pubbliche occidentali che seguono codici etici sconnessi dall’ortodossia cattolica”. Nel suo volume intitolato C’era una volta un Vaticano, Franco sposta l’attenzione dalle Public Relations a qualcosa di più profondo: “E’ come se all’ombra di un Pontefice considerato uno dei più fini intellettuali europei si fosse creata un’anarchia di responsabilità e di ruoli, che rende possibili quotidianamente errori e gaffe”.
E’ lo stesso Ratzinger, del resto, ad ammetterlo candidamente. Nel recente libro-intervista Luce del mondo, scritto con il giornalista tedesco Peter Seewald, Benedetto XVI spiega, a proposito del controverso discorso di Ratisbona: “Avevo concepito quel discorso come un lezione strettamente accademica, senza rendermi conto che il discorso di un Papa non viene considerato dal punto di vista accademico, ma da quello politico”. Ammissione tanto coraggiosa quanto sorprendente per un uomo sicuramente più versato nella riflessione teoretica e nella teologia che nelle PR e nella diplomazia, ma che, comunque, ha trascorso oltre un ventennio nel cuore dell’establishment vaticano, a strettissimo contatto con Giovanni Paolo II.
Ed è forse da Wojtyla che bisogna partire per mettere in fila i diversi e complessi motivi delle “gaffe” di Ratzinger. Perché il Papa che, di recente, è apparso a suo agio nel documentario di History channel, dedicato ad una vita privata tra pianoforte, carte di studio e aranciata, si è dovuto innanzitutto confrontare con un Pontefice che “bucava lo schermo”. Giovanni Paolo II aveva nelle vene l’empatia con le folle e con le telecamere. Da giovane era stato attore di teatro ed ha sempre esposto se stesso, la propria immagine forte e atletica, alla curiosità di fedeli e teleobiettivi. Ha fatto anche della sua malattia motivo di spettacolo. Uno spettacolo che ha raffigurato, secondo i suoi estimatori, la sofferenza del vicario di Cristo; o che, per i suoi detrattori, aveva a che fare più con il narcisismo del personaggio che con l’umiltà del cristiano, più con l’onore del mondo che con l’onore del cielo.
E’ lo stesso Ratzinger che, sempre nel libro-intervista Luce del mondo, mette in rilievo una serie di differenze rispetto al suo predecessore. Se Wojtyla arrampicava, nuotava e sciava, Ratzinger commenta così il ruolo dello sport nella sua vita: “Non ne ho proprio il tempo e, ringranziando Iddio, in questo momento nemmeno mi serve”. Giovanni Paolo II conquistava le folle, ma Benedetto XVI si domanda “se sia veramente giusto offrirsi sempre alle folle e farsi acclamare come una star”. Quando Peter Seewald fa l’esempio dei lunghi viaggi del Papa polacco, il Papa tedesco commenta: “Le visite pastorali chiedono tanto ad uno come me”. Timido, riservato, incline a rifugiarsi nella scrittura e nell’esecuzione di brani di Mozart al pianoforte, Ratzinger mangia malvolentieri con persone estranee alla famiglia pontificia, riceve di rado i nunzi apostolici, prende frequentemente le decisioni in solitudine e anche con i suoi più stretti collaboratori preferisce il “Lei” al “Tu”. Inevitabile, allora, che abbia un rapporto stentato anche con i mass media. Meno attento alle scenografie, più concentrato sulla spiritualità, distratto, se non sbadato, sulla forma e concentrato sulla parola, sul ragionamento. Freddo e intrattabile per i suoi nemici, focalizzato sulla sostanza del messaggio evangelico per i suoi sostenitori.
Non va dimenticato, peraltro, che anche Wojtyla fece gaffe, ebbe incidenti di percorso e, soprattutto all’inizio del suo Pontificato, si scontrò con gli stessi ambienti catto-progressisti con i quali ha fatto i conti Ratzinger. Per carattere, per statura politica o per vicende umanissime come l’attentato di Ali Agca, però, nel corso degli anni Wojtyla conquistò una simpatia diffusa che, a lungo andare, costituì una sorta di schermo che fiaccava le critiche e valorizzava i successi mediatici. Una simpatia che, di sicuro, faceva comodo a molti. Gli amanti dei complotti internazionali – ed è questo un secondo elemento da tenere in considerazione – notano che fintantoché Giovanni Paolo II fu un valido alleato degli Stati Uniti nella battaglia contro la Russia sovietica, il Vaticano godette, Oltreoceano, di una sorta di immunità mediatica.
Quando il muro di Berlino era ormai caduto e Giovanni Paolo II iniziò a criticare la guerra irachena di Bush, negli Usa iniziarono a fioccare le prime accuse di pedofilia ai preti cattolici…
La differenza tra Wojtyla e Ratzinger non è, però, solo di forma. Benedetto XVI si è mostrato poco versato in materia di politica e di diplomazia, a differenza di un Wojtyla passato alla storia anche per il fondamentale ruolo svolto nel contrasto all’Unione sovietica così come alla guerra in Iraq decisa dal presidente Usa George W. Bush. Ratzinger ha inteso la sua missione più rivolta all’interno della Chiesa che all’esterno, più tesa a confermare i fedeli nella fede che a conquistarne di nuovi, più attenta a difendere le minoranze cristiane in Medio Oriente e nell’Occidente secolarizzato che ad assurgere a capofila di movimenti di opinione mondiali su tematiche geopolitiche o morali come l’aborto o la guerra. Se, dal punto di vista dottrinale, non vi è sostanziale differenza tra i due Pontefici – non a caso Ratzinger, da prefetto della Congregazione della Dottrina della fede, è stato quasi l’ideologo di Wojtyla – in Giovanni Paolo II era forte una componente missionaria e una capacità di gesti profetici, magari controversi. Basti pensare alla preghiera con i leader delle altre religioni ad Assisi, al bacio del Corano, la commozione davanti al muro del pianto a Gerusalemme, alla tonante denuncia della mafia ad Agrigento, ai canti alle Giornate mondiali della gioventù. Gesti che conquistavano con immediatezza anche i più lontani dalla fede cattolica. Se Wojtyla era conservatore nelle idee ma progressista nei gesti, Ratzinger – ed è un terzo motivo della poca “notiziabilità” del Papa regnante – è un conservatore integrale.
In questo senso è imparagonabile la difficoltà di Ratzinger con i mass media a quella vissuta da Paolo VI. Montini visse in un frangente storico sovreccitato e incappò negli strali dei giornali di sinistra quando scrisse l’enciclica Popolorum progressio, in quelli dei giorni di destra quando compose la Humanae vitae. Intellettuale scomodo e controcorrente, la sua esperienza umana e istituzionale lo portò a vivere una sorta di “passione” moderna costellata di incomprensioni con l’opinione pubblica. I fraintendimenti di Papa Ratzinger tendono ad essere, invece, a senso unico. Se conquista un pubblico progressista è solo in ragione del suo rigore morale tedesco (quando, ad esempio, assume una linea rigida sulla vicenda della pedofilia). Ma, per il resto, le sue convinzioni più intime lo portano ad una concezione conservatrice della Chiesa, critica nei confronti di ogni rottura nella storia della Chiesa, allergica a ciò che dà scandalo – che siano gli abusi sessuali o le eresie – nella misura in cui va preservata la tradizione del magistero.
Se un dato lo assimila ai suoi due predecessori – ed è il quarto elemento da prendere in considerazione – è che da Paolo VI in poi il Vaticano ha dovuto vivere immerso in un mondo mediatico. Ma l’accelerazione degli ultimi anni ha posto Benedetto XVI in una posizione ben più scomoda di Montini e Wojtyla. La sola rivoluzione di internet marca una distanza abissale. Senza il web, ad esempio, molti degli scandali emersi l’anno scorso sugli abusi sessuali del clero in Germania, Belgio, Australia o Stati Uniti semplicemente non sarebbero rimbalzati con la velocità e la virulenza con cui lo hanno fatto con Ratzinger. Se è indubbio che il Palazzo apostolico di Benedetto XVI si è mostrato quanto meno inadeguato di fronte agli standard delle Public Relations internazionali, è altrettanto vero che i Pontefici del passato, e i loro portavoce, hanno potuto gestire con molta più facilità (e qualche scorrettezza in più) notizie difficili, complesse, scivolose.
C’è infine una quinta causa delle idiosincrasie di Ratzinger con i mass media: i suoi collaboratori. Il suo Segretario di Stato, card. Tarcisio Bertone, non è un diplomatico di carriera e non ha mancato di dimostrarlo. Il suo portavoce, Federico Lombardi, è tutto fuorché uno scafato spin doctor. Il corpo diplomatico dei nunzi si è dimostrato a più riprese pasticciona e avventata (è nota, del resto, la battuta del cardinale Domenico Tardini, che rispondeva così a chi diceva che la diplomazia della Santa Sede era la migliore del mondo: “Figuramose la seconda…”). La Curia romana, così come il collegio cardinalizio, sono stati attraversati, nel corso dei mesi, da bassi giochi di potere, ripicche, contrasti eclatanti. La “squadra” di Ratzinger, insomma, è lungi dall’essere un dream team. Ma il Vaticano non è un Governo qualsiasi. E, soprattutto per un Papa che ha voluto sottolineare la continuità tra il Concilio vaticano II e la storia della Chiesa precedente, vale il principio che un Pontefice è un Monarca. Da lui dipendono, in ultima istanza, magistero ecclesiastico e politica pontificia, scelte di governo e nomine dei vescovi e dei collaboratori. Da lui discendono i successi, a lui vanno ascritte le “gaffe”.