«Ma il processo a Mubarak è solo un atto simbolico»

«Ma il processo a Mubarak è solo un atto simbolico»

Il pugno di ferro che in Egitto è stato sventolato nei confronti del vecchio regime, con tutta probabilità, sarà solo una carezza. È vero che l’ex presidente egiziano Hosni Mubarak è stato interrogato al commissariato di Al Tor, nei pressi di Sharm, già ieri, prima di venire colpito da un infarto. Ed è vero anche che i due figli, Alaa e Gamal, il “tycoon” e il “delfino” sospettati di essere al centro di una fitta trama di abusi e corruzione, sono ora nel carcere di Tora, al Cairo, per 15 giorni di custodia cautelare. Ed è vero, infine, che anche la moglie, Suzanne Mubarak, è stata sentita oggi dagli inquirenti, per presunte malversazioni nella gestione della biblioteca di Alessandria. Eppure l’entusiasmo che la notizia ha suscitato, nei social network e nel mondo politico, dovrà essere ridimensionato.

«Non se ne farà nulla: difficilmente l’esercito, che ha ora in mano il governo, lo permetterà», sostiene il professor Paolo Branca, arabista dell’Università Cattolica di Milano. Il processo sarebbe solo un atto simbolico, voluto per creare consenso nella popolazione, ma che i militari, ora al potere, non «vogliono davvero». Una bolla di sapone, una sceneggiata. Dello stesso avviso anche Karim Nezram, professore di Studi mediorientali alla Johns Hopkins University, e residente a Roma. «Solo un atto di appeasement, un modo per mettere d’accordo la popolazione, e venire incontro alle pressioni internazionali».

Il nuovo regime avrebbe una strategia chiara: da un lato mostrare il lato buono, sia alla gente, che al mondo. «Promettono riforme, e prendono le distanze da Mubarak». Intanto si tengono aggrappati al potere: hanno diviso le componenti della rivolta, attirando a sé i vertici dei Fratelli Musulmani, e si stanno cucendo una veste democratica, in vista delle prossime elezioni. «Con tutta probabilità faranno un loro partito, e sceglieranno un candidato civile, ma comunque vicino», continua Nezram.

Nei confronti della popolazione si mostrano a un tempo concilianti e severi: «Dicono di volere la pace, e per questo motivo accettano di processare Mubarak, assecondando la volontà dei protestanti. In questo modo si pongono dalla loro parte, e si associano nella condanna verso il passato regime ». Però hanno bisogno di apparire autorevoli, soprattutto a livello internazionale. La parola d’ordine, in questi caso, è stabilità e sicurezza. «Per questo hanno scelto di reprimere le rivolte di piazza. È successo sabato scorso. I protestanti hanno chiesto i processi per Mubarak e il suo entourage. Anche l’esercito è intervenuto per sedare la manifestazione, e ha provocato almeno un morto e 71 feriti», eppure, secondo Nezram «La repressione non è stata condannata. Al massimo è sembrata esagerata, ma non ingiusta».

Eppure, il cambiamento, rispetto a Mubarak, c’è. Il nuovo regime si porrà in un contesto più democratico, e darà spazio all’opposizione. «E uscirà dalla dicotomia che ha segnato l’Egitto negli ultimi anni: quella tra autocrazia, incarnata dal governo del raìs, e tra islamismo». Gli islamici verranno integrati nel sistema, e questo li costringerà ad adattarsi a regole diverse, democratiche, di sicuro dialoganti. Un progresso».

Secondo il professore, la popolazione accetterà il nuovo ordine, anche perché i moti di piazza saranno repressi si sfarineranno. «Già adesso gli egiziani non sono uniti: alcune fasce sono spaventate dalle proteste» E quindi, in tutto questo, che succederà a Mubarak? «Se la caverà. Il processo andrà avanti fino a un certo punto: finché farà comodo. E poi si arenerà, o verrà fatto arenare». 

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