Se c’è un giudizio concorde, fra le mille analisi che cercano di spiegare l’infinito domino delle “rivoluzioni arabe”, probabilmente è che chi stia guadagnando maggiormente sia la Repubblica Islamica d’Iran. Già beneficiata nel decennio precedente dalla disastrosa politica mediorientale dell’Amministrazione Bush, Teheran vedrebbe ancor più esaltato il proprio ruolo di potenza regionale dal crollo – o dalle difficoltà – in cui si dibattono tanti regimi arabi (e sunniti) vicini all’Occidente.
Ma la pensano così anche in Iran? Non vi è dubbio che – almeno nel breve termine – il regime al potere si senta rafforzato da questo grande sommovimento. Del resto, gli ultraradicali del presidente Mahmud Ahmadinejad, i pasdaran e tanti fra i conservatori tradizionali più lontani dall’Occidente ragionano in una logica di confronto che riprende i vecchi schemi e le categorie politiche della guerra fredda: «se cade un amico di un mio nemico, io ne ricevo un vantaggio».
Ma il Medio Oriente è ben più complicato di così; soprattutto, le motivazioni e le possibili conseguenze del caldo inverno mediorientale rischiano di essere molto meno positive per l’Iran. E probabilmente lo sa bene anche il governo ultraradicale, almeno a giudicare da certe sue mosse. La stampa iraniana – ormai normalizzata e completamente nelle mani degli anti-riformisti – ha sottolineato come la caduta di Mubarak rappresentasse la logica conclusione, auspicata e quasi profetizzata per anni, di regimi asserviti all’Occidente e non rispondenti ai principi dell’Islam. Ma in realtà, la caduta del presidente autocrate egiziano è avvenuta per il suo fallimento politico, sociale, economico e morale: gli slogan islamisti sono rimasti marginali. Non casualmente in Iran si è decisa un’ulteriore stretta contro il movimento riformista dell’Onda Verde, arrivando fino all’arresto dei capi riformisti, e alla militarizzazione della capitale.
Gli slogan contro la corruzione, la mancanza di libertà e il disastro economico scanditi a Tunisi o al Cairo erano ben noti anche a Teheran, essendo risuonati per mesi fra il 2009 e il 2010, dopo la clamorosa manipolazione dei risultati elettorali che aveva riportato alla vittoria il presidente uscente Ahmadinejad. E tuttavia, proprio la repressione interna, sta mutando le forme in cui si manifesta e si organizza l’Onda Verde. Con l’arresto dei capi riformisti, il movimento si fa più multiforme, meno strutturato e meno moderato: personaggi come Karrubi, Khatami e Mousavi fungevano da freno per i propri sostenitori, facendo sì che il riformismo rimanesse entro i confini ideologici della repubblica islamica. Ora non più.
Ma ancor più pericoloso per Teheran è lo scoppio delle proteste in Siria, l’alleato cruciale dell’Iran in tante partite politiche mediorientali. I media ne parlano poco; ovviamente si tratta solo di complotti sionisti aiutati dai nemici interni, secondo la liturgia stantia del complottismo occidentale. Ma un mutamento a Damasco renderebbe molto più difficile l’azione iraniana in Libano e in Palestina, accentuandone la marginalizzazione.
Infine, nel medio-lungo periodo vi è la preoccupazione che le rivoluzioni arabe possano portare al potere governi più islamisti, ma sunniti e vicini all’Arabia Saudita. Nonostante la retorica pan-islamista, l’Iran rimane ferocemente nazionalista e con pessimi rapporti con i sunniti arabi. Un Egitto islamista non sarebbe – come si crede un grande vantaggio per Teheran – ma l’esatto contrario: l’Iran ha potuto espandere il proprio soft power nel Medio Oriente anche grazie alla crisi di credibilità egiziana. Ma se il Cairo dovesse riprendersi il suo posto tradizionale di guida del mondo arabo, l’influenza di Teheran non potrebbe che scemare.
*Università Cattolica di Milano