Qualcuno la chiama la “Silicon Valley” della green economy: è la galassia di imprese che da qualche anno ha puntato sul solare fotovoltaico. Cavalcavano la cresta dell’onda, assumevano operai mentre gli altri firmavano lettere di licenziamento, pianificavano nuove filiali e nuovi progetti. Fino al 3 marzo scorso, quando il governo ha messo una croce sul piano di incentivi in vigore dal 2005, conosciuto come “Conto Energia”.
Oggi, quelle stesse imprese chiedono casse integrazione a pioggia (10.000 su un totale di circa 120.000 addetti, secondo una stima di Gifi, il gruppo imprese fotovoltaiche italiane) e mettono il freno a mano a nuovi investimenti. Le realtà più piccole rischiano il crac. Dal 2005 Conto Energia ha elargito centinaia di milioni di euro a piccole e medie imprese per ogni megawatt prodotto grazie al Sole, in più prevedeva una tariffa di favore ad ogni kilowatt venduto sul mercato. Una tariffa da capogiro: più del triplo rispetto a quella tradizionale, destinata a chi produce kilowatt da fonti fossili. Le condizioni ideali per sviluppare una tecnologia tanto promettente quanto costosa, ancora poco efficiente rispetto all’eolico, che infatti gode di incentivi più bassi. Il decreto legislativo numero 28 ha interrotto questo meccanismo. Ma soprattutto ha gettato un intero settore nell’incertezza.
Perché al posto delle vecchie tariffe-incentivo ne verranno stabilite di nuove. Certamente più basse. Ma a quanto ammonteranno, nessuno lo sa. Il ministero dello Sviluppo Economico si è riservato di deciderlo entro fine aprile. Chi ha già allacciato il proprio impianto alla rete elettrica nazionale (o lo farà entro il 31 maggio) è salvo perché godrà dei vecchi benefici.
Sono dolori, invece, per chi aveva cominciato a costruire distese di pannelli solari, sicuro di rientrare dell’investimento. Se la vedono male anche quelle imprese che l’impianto l’hanno concluso, ma devono ancora collegarlo alla rete. Enel impiega tra i 60 e i 90 giorni per l’allaccio. E la scadenza del 31 maggio assume i contorni di una chimera.
«Ci hanno cambiato le carte in tavola mentre stavamo giocando» spiega Pietro Pacchione di Aper, l’associazione che riunisce molti produttori di energie rinnovabili. «Per costruire un impianto l’impresa si indebita con le banche e i fornitori. Ma è un rischio calcolato, sulla base dell’incentivo stabilito dalla legge ognuno decide se investire o no. Oggi, chi ha contratto un debito non sa neanche se riuscirà a ripagarlo, perché l’incentivo è sparito come per magia». Vai a spiegare alla banca che lo scenario previsto al momento di stilare il project financing è stato stravolto.
«Il danno è già stato fatto. Ora si tratta solo di limitarlo». È il commento di Domenico Sartore, presidente di una delle imprese attive nel fotovoltaico: Solon Spa. Per la Solon, che ha installato i suoi capannoni a Carmignano di Brenta, nel Padovano, il danno è già quantificabile. Il fatturato previsto a fine 2011 era di 250 milioni? Dopo il decreto taglia-incentivi l’unica certezza sono i 50 milioni dei primi quattro mesi dell’anno. Anche le conseguenze sono una realtà concreta: su 260 dipendenti, 95 sono già in cassa integrazione, altri 100 lavoratori ci entreranno presto. E parliamo di un gigante del settore, un’impresa che può ricorrere agli ammortizzatori sociali. E se le cose dovessero mettersi male, spostare il business negli Stati Uniti non sarà un problema. Lussi che in questo settore possono permettersi in pochi. In Italia gli impianti extra-large, quelli che producono più di 5000 Kilowatt, sono una rarità: 33. La maggior parte dell’energia solare è prodotta dai “nani”: gli impianti da 3 a 20 Kilowatt sono quasi centomila.
Anche grazie ai golosi incentivi di Conto Energia la Isi – Italia Solare Industrie – aveva rilevato lo stabilimento di Scandicci di Electrolux, una fabbrica di elettrodomestici. Tutti i lavoratori sono stati riconvertiti dalla produzione di frigoriferi a quella di pannelli fotovoltaici. L’azienda però è già in crisi da novembre 2010, il primo mese in cui i 375 dipendenti hanno cominciato a non ricevere più lo stipendio. L’incertezza sul nuovo incentivo ha fatto precipitare la situazione. Oggi i dipendenti rischiano di perdere il posto di lavoro.
Bollette meno care. O no? Gli incentivi alle rinnovabili li paghiamo noi, ogni due mesi, sulla bolletta elettrica. Bolletta che si fa sempre più salata: nel secondo trimestre 2011 aumenterà del 3,9%. È questo l’argomento chiave del ministro allo Sviluppo economico Paolo Romani per chiudere il rubinetto. Gli alleati non gli mancano. In prima fila ci sono i pezzi da novanta di Confindustria: le attività più energivore, che a un ribasso della bolletta hanno tutto l’interesse. Ma anche Assoelettrica, che riunisce i principali produttori di elettricità da fonti non rinnovabili.
«Vorrebbero imporre un limite di 2 gigawatt incentivabili ogni anno. Ma lei investirebbe in questo settore con l’incognita di non rientrare nella soglia?» è la domanda retorica che si fa Pietro Pacchione di Aper. Che prova a darsi una risposta: «Senza incentivi, un imprenditore non investe nel fotovoltaico, perché non gli converrebbe. Le potenzialità però restano enormi. Non chiediamo più incentivi, capiamo perfettamente che debbano cominciare a diminuire, chiediamo solo che non abbiano effetti retroattivi».
Ma l’aumento delle bollette è davvero colpa della green energy? Secondo uno studio del Kyoto Club, presentato dal senatore Pd Francesco Ferrante nello scorso febbraio, questo è vero a metà.
Calcolando il solo 2010, le energie rinnovabili hanno pesato sulle bollette per un totale di 2,7 miliardi di euro. Cioè meno della metà degli oneri non legati al consumo effettivo di elettricità. Perché tra dismissione delle centrali nucleari, agevolazioni tariffarie per le ferrovie, ma soprattutto i finanziamenti Cip6 alle energie rinnovabili “assimilate” (tra cui gli inceneritori di rifiuti), il conto sale a 3 miliardi di euro. Dati alla mano, costano molto di più in bolletta gli incentivi per bruciare immondizia – che rinnovabile non è – di pale eoliche e moduli fotovoltaici.