Wikileaks, sarà anche morta ma tutti la copiano

Wikileaks, sarà anche morta ma tutti la copiano

Sono passati tre anni e (quasi) otto mesi dalla morte a Baghdad di due giornalisti della Reuters, il fotografo Namir Noor-Eldeen, 22 anni, e l’autista Saeed Chmagh, 40 anni. Ed è passato un anno dalla pubblicazione del video Collateral Murder da parte di Wikileaks, dove si vede un elicottero aprire il fuoco su quelli che in realtà sono dei civili. Un video visto 11 milioni di volte su Youtube, una prova che la Reuters aveva iniziato a cercare nel luglio del 2007. 

In seguito alla richiesta dell’agenzia di stampa, l’esercito americano non aveva rivelato come i due dipendenti della Reuters erano stati uccisi. La conclusione di un’indagine interna sottolineava che le azioni dei soldati erano state coerenti alle proprie regole di ingaggio. Regole di ingaggio (valide per il triennio 2006 – 2008) che sono state poi pubblicate da Wikileaks.

Il video si apre con una citazione di un saggio di George Orwell, La politica e la lingua inglese, pubblicato sulla rivista Horizon nel 1946. «Il linguaggio politico [e questo è vero, con varianti, per ogni parte politica, dai conservatori agli anarchici] è elaborato per far sembrare vere le menzogne e rispettabile l’omicidio e per dare un sembiante di solidità al vento».

Si tratta di un dettaglio importante, anzi fondamentale, nella vicenda di Wikileaks. È la prima volta che la piattaforma ha editato un contenuto in modo giornalistico allo scopo di ottenere il maggior impatto possibile. Daniel Domscheit-Berg, ex-portavoce di Wikileaks in Germania, nel suo libro Inside Wikileaks, descrive così quel passaggio: «Avevamo abbandonato la nostra posizione neutrale. Avendo montato un vero e proprio video da materiale grezzo e avendo aggiunto dei sottotitoli al parlato e alle comunicazioni radio, saremmo diventati anche noi dei manipolatori dell’opinione pubblica». Qualche riga prima, lo stesso Domscheit-Berg scrive: «[il video] rappresentò il nostro definitivo successo».

La tappa successiva nella cronologia del libro autobiografico del numero due di Wikileaks è l’arresto di Bradley Manning, analista militare americano ventiduenne, con l’accusa di essere il whistleblower, la gola profonda, che ha spedito a Wikileaks decine di migliaia di file protetti, fra cui il video Collateral Murder. Il 26 luglio 2010 Wikileaks pubblica gli Afghan War Diaries, il 22 ottobre gli Iraq War Logs e, il 28 novembre 2010, i dispacci dei diplomatici americani, i cablo.

Quattro anni prima, il 4 ottobre 2006, era stato registrato il dominio wikileaks.org. Qui si possono leggere le mail che hanno portato alla fondazione di un sito che, in dodici mesi, aveva fatto scrivere a Time: «se [Wikileaks] fosse usato con una salutare dose di scetticismo potrebbe diventare uno strumento giornalistico importante quanto il Freedom of Information Act  la legge che consente l’accesso a informazioni del governo federale americano e, come recita il suo claim quasi pubblicitario, “tiene informati i cittadini sul loro governo».

L’effetto di Wikileaks sul mondo dei media è andato ben oltre la partnership con attori tradizionali come il New York Times, Guardian, Der Spiegel. Lo stesso si può dire a proposito dell’impatto del mondo dei media su Wikileaks. A questo si è aggiunta la crescente difficoltà strutturale dell’organizzazione, tanto resistente, quanto fragile.

Le criticità sono dovute a motivi finanziari e strutturali. Dal lato finanziario c’è stata sia difficoltà nel ricevere donazioni, dopo il blocco di alcuni operatori, sia una gestione «poco limpida» secondo chi ha poi lasciato l’organizzazione. Dal lato strutturale sono stati due i fattori rilevanti. Il primo è la necessità, da parte di chi raccoglie ed edita le informazioni, della struttura dei media tradizionali. Sono stati il New York Times, Der Spiegel, Guardian, Le Monde, El Pais a creare il vero impatto e non soltanto la massa di informazioni che Wikileaks ha messo a disposizione Il secondo fattore è stato il crescente spazio occupato sui media da Julian Assange. La forza propulsiva di Wikileaks era rappresentata dal fatto che si trattava di una rivoluzione senza volto. Un fenomeno che sfruttava tutte le potenzialità della rete fino a diventare inattaccabile. Nel momento in cui, anche per le vicende giudiziarie di violenza sessuale che gli vengono contestate in Svezia, Assange ha occupato sempre più spazio sui media, la struttura di Wikileaks è entrata in difficoltà.

Un racconto di questa difficoltà e dei quattro anni di vita di Wikileaks si può trovare in Inside Wikileaks, il libro-testimonianza di Daniel Domscheit-Berg, ex numero due del sito ed ex portavoce in Germania. Un racconto che si conclude il 15 settembre 2010 quando Domscheit-Berg e altre persone lasciano Wikileaks per fondare OpenLeaks, una nuova organizzazione, con una nuova filosofia.

Si tratta di un’evoluzione dei siti di whistleblowing. «La prima differenza» sottolinea a Linkiesta Herbert Snorrason, uno degli attivisti, è che «OpenLeaks in sé non riceverà né pubblicherà documenti. Questo perché in questo modo si dividono le responsabilità, la mole di lavoro e – cosa più importante – il potere». Quella che sarà la dinamica di funzionamento è ben illustrata da un video su openleaks.org.

Quindi, cosa farà materialmente la nuova piattaforma? «Noi ci assicureremo che i documenti vengano ricevuti anonimamente e che le organizzazioni che lavorano con noi li ricevano. Qualsiasi altra cosa a parte questa non è di nostro diretto interesse. Come risultato, la pubblicazione dei documenti sarà soggetta alle situazioni specifiche di ogni soggetto che pubblicherà». Non ci sarà più la corsa a un singolo sito per cercare fra migliaia di documenti, ma – al contrario – saranno media tradizionali, organizzazioni non governative, sindacati e soggetti terzi a pubblicare direttamente il materiale.

«Al momento», secondo Snorasson, «OpenLeaks sta lavorando con altre cinque organizzazioni e stiamo avendo dei colloqui con altre per future collaborazioni». Alla domanda su quante persone ci siano dietro a OpenLeaks, risponde così: «Ci sono circa dodici persone coinvolte a vario titolo in questo momento». I tempi perché il sito diventi operativo sono però ancora lunghi: il sito è alla vigilia di lanciare la sua fase Alpha, cui – a mesi di distanza – seguirà una seconda fase. «Il pieno funzionamento sarà un processo di evoluzione della Beta, quindi non ci sono ancora tempi certi».

Quella che sembra essere già partita è invece la corsa, fra i media tradizionali, a sviluppare la propria piattaforma per gole profonde. La più veloce è stata Al Jazeera che nel gennaio 2011 ha messo online la sua Transparency Unit e il 23 dello stesso mese ha pubblicato i Palestine Papers, 1700 file riservati della diplomazia palestinese. Il network sottolinea che «tutti i materiali sono criptati mentre ci vengono inviati, e rimangono criptati anche sui nostri server». Come Wikileaks, anche la Transparency Unit di Al Jazeera richiama l’uso di Tor.

Tor sta per The Onion Ring, l’anello di cipolla. Come spiegava John Naughton in un articolo dell’agosto 2010 su The Observer, al centro del funzionamento di Wikileaks «c’è un’implementazione open source di una tecnologia di networking che usa la crittografia per spostare i dati da un router ad un altro in modo che l’identità di ciascun nodo sia nascosta». Naughton fa anche notare che anche i governi usano lo stesso sistema per le loro trasmissioni.

Al Jazeera ha inaugurato quella che Raffi Khatchadourian del New Yorker ha definito «la corsa alle armi di Wikileaks ». Di fatto, scrive Khatchadourian «sarebbe sorprendente se altri grandi sistemi editoriali non fossero già al lavoro ai propri portali modellati su Wikileaks». E che il New York Times stia pensando a una propria piattaforma l’ha confermato Bill Keller, executive editor del giornale, in un’intervista alla National Public Radio il primo febbraio durante il programma Fresh Air. In precedenza Keller aveva detto che il giornale stava «pensando a qualcosa su quella falsariga».

Interpellati da Linkiesta, anche dal New York Times confermano che «la fase di discussione è ancora aperta e che non è cambiato niente dall’intervista». Alla domanda se è stato fissato un limite per la riflessione all’interno del New York Times, la risposta è stata che «non esiste un termine». Intanto che la discussione prosegue, il New York Times ha pubblicato l’e-book Open Secrets, Wikileaks, War and American Diplomacy nel gennaio 2011. Anche il Guardian ha pubblicato il proprio volume sulla redazione dei documenti, Wikileaks, Inside Julian Assange’s War on Secrecy.

I rapporti fra i media tradizionali e Julian Assange sono diventati via via sempre più tesi. Ai contrasti sulla gestione editoriale dei cablo della diplomazia americana, si è aggiunto anche un elemento personale quando, nell’ottobre 2010, è uscito un ritratto di Assange sul New York Times firmato da John F. Burns. Nell’articolo dello scorso ottobre il giornalista descrive Assange come un uomo «incredibilmente intelligente», ma che «alcuni dei suoi compagni stanno lasciando per via di un comportamento che giudicano ondivago e autoritario».

Dati alla mano anche il sito, dopo la pubblicazione dei cablo americani, è stato messo in difficoltà dal rifiuto di alcuni server di ospitarne i contenuti e dal blocco delle donazioni operato da Visa, Mastercard e PayPal. A questo blocco aveva risposto anche il gruppo di hacker Anonymous, con l’operazione Avenge Assange, Vendica Assange.

Così nel momento di maggiore difficoltà, quando alcuni lo danno per morto, il modello wikileaks in realtà sopravvive in altre forme e il suo impatto sul mondo dell’informazione è ancora tutto da studiare.

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