Wojtyla dimenticò Romero, ma fece santo Escrivà

Wojtyla dimenticò Romero, ma fece santo Escrivà

Santi “di parte”. Elevarne uno per educarne cento

Nei suoi quasi 27 anni di pontificato, Giovanni Paolo II ha canonizzato 1.338 beati e proclamato 482 santi: in pratica Wojtyla ha elevato agli onori degli altari più santi e beati che tutti i papi suoi predecessori degli ultimi quattro secoli. È evidente che la “fretta” o i “ritardi” hanno motivazioni ecclesiali e politiche. Così il fondatore dell’Opus Dei, Josemaria Escrivá de Balaguer, morto nel 1975, è stato beatificato nel 1992 e canonizzato nel 2002. Ma la causa di beatificazione di monsignor Oscar Arnulfo Romero, assassinato nel 1980, è ferma in qualche cassetto curiale. Dunque, Wojtyla ha proposto come esempio ai fedeli non un vescovo martire della giustizia e della pace, ma un fedelissimo delle direttive vaticane, all’epoca estimatore del Franchismo, e al centro di aspre polemiche che non hanno risparmiato neppure la sua beatificazione. Ha generato controversie anche la beatificazione di Alojzije Stepinac (3/10/1998), il vescovo salutato come salvatore da Ante Pavelic, leader degli ustascia voluto e foraggiato dai nazisti. Stepinac fu accusato di silenzio (quando non di connivenza) sulla strage dei serbi. Secondo i sostenitori di Stepinac, egli fu perseguitato nella Jugoslavia di Tito, in quanto condannato, in un processo-farsa, a 16 anni di carcere.

Le molte voci che chiedevano la beatificazione di madre Teresa sono state ascoltate, e la suora è stata beatificata a soli sei anni dalla morte (5 settembre 1997). Il papa, anzi, avrebbe addirittura voluto proclamarla direttamente santa.

Inascoltati sono rimasti invece i molti e le molte che chiedevano di premiare anche “san Romero d’America”. Wojtyla ha scelto chi ascoltare e chi ignorare. Il 3 settembre 2000 ha beatificato, congiuntamente, Pio IX e Giovanni XXIII: il primo, un papa che molto fece soffrire gli ebrei e che definì «deliramento» il principio della libertà religiosa; il secondo, un papa che volle un Concilio anche per cancellare l’odio teologico dei cattolici verso gli ebrei, e per affermare il principio della libertà religiosa. A taluni questo uso dell’istituto della “fabbrica dei santi” è apparso spregiudicato.

La normalizzazione in Sudamerica
Tra i dati più rilevanti del pontificato di Wojtyla
, non si può non menzionare la pesante normalizzazione imposta alla Chiesa latinoamericana, che, a partire dalla seconda Conferenza dell’episcopato latinoamericano di Medellín, nel 1969, era riuscita ad esprimere una voce distinta, ponendo un forte accento sulla necessità e urgenza di una radicale opzione per i poveri e di un profondo cambiamento delle strutture di dominio e di oppressione.

La prima decisa offensiva conservatrice contro questa nuova linea pastorale viene lanciata a Puebla, nel 1979, in occasione della terza Conferenza dell’episcopato latinoamericano. Nonostante i primi segnali di cedimento, l’offensiva viene sostanzialmente respinta. Ma si tratta appena del primo round. La reazione conservatrice è inarrestabile, esprimendosi attraverso una dura lotta alla Teologia della Liberazione, una radicale svolta a destra del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano), sotto la regia dell’arcivescovo colombiano López Trujillo, allora alla Presidenza dell’organismo, il commissariamento della Clar (Conferenza latinoamericana dei Religiosi), l’emarginazione dei vescovi che si riconoscevano nella linea di Medellín, lo smantellamento del lavoro pastorale da essi condotto ad opera di successori di linea diametralmente opposta.

Tra gli innumerevoli casi di normalizzazione episcopale, restano esemplari quelli relativi alle personalità più rappresentative e più forti della Chiesa progressista latinoamericana, dal vescovo di Recife Hélder Câmara all’arcivescovo martire di San Salvador Oscar Arnulfo Romero, dal cardinale di San Paolo Paulo Evaristo Arns al vescovo di San Cristóbal de Las Casas Samuel Ruiz. A succedere a Helder Câmara viene chiamato, nel 1985, monsignor José Cardoso Sobrinho, che subito si lancia in una sistematica opera di smantellamento del lavoro svolto dal suo predecessore, attraverso una lunga serie di espulsioni di docenti, religiosi e sacerdoti vicini alla teologia della liberazione.

È stato del resto proprio l’episcopato brasiliano quello forse più duramente colpito, come mostra il caso della successione al cardinale Paulo Evaristo Arns, instancabile difensore degli emarginati ed esponente di punta dell’ala progressista latinoamericana. Al suo posto, i vescovi conciliari invocano la nomina di uno dei vescovi ausiliari di Arns oppure dell’arcivescovo di Mariana ed ex presidente della Cnbb (la Conferenza episcopale brasiliana, anch’essa gradualmente normalizzata) Luciano Mendes de Almeida, per il quale invano si è lungamente atteso un incarico di maggior prestigio. La scelta del Vaticano cade invece su Claudio Hummes, vicino al movimento carismatico, nominato appena due anni prima arcivescovo di Fortaleza, dove aveva rimesso ordine nel lavoro svolto dal suo predecessore, il cardinal Aloísio Lorscheider.

A San Salvador, l’arcidiocesi di monsignor Romero, il suo immediato successore e amico, monsignor Arturo Rivera y Damas, scomparso nel 1995, viene sostituito con un vescovo di linea totalmente diversa: monsignor Fernando Sáenz Lacalle, spagnolo d’origine, dell’Opus Dei. In Messico la normalizzazione si traduce in particolare nel completo smantellamento dell’opera pastorale di monsignor Méndez Arceo a Cuernavaca e nell’offensiva contro la diocesi di San Cristóbal de Las Casas, prima affiancando a monsignor Samuel Ruiz un vescovo coadiutore con diritto di successione, monsignor Raul Vera Lopez, poi, di fronte alla comunione di intenti mostrata dai due vescovi, trasferendo quest’ultimo a Saltillo, alla frontiera con gli Stati Uniti.

In Perù, a sostituire il cardinale gesuita Augusto Vargas Alzamora, fiero avversario di Fujimori e leader della Chiesa cattolica di Lima per nove anni, viene chiamato (contro la volontà della maggior parte dei vescovi peruviani) un membro dell’Opus Dei, Luis Cipriani, amico di Fujimori, sempre al centro di infuocate polemiche, a partire da quella sulla mancata difesa dei diritti umani della sua gente, nei dieci anni passati alla guida dell’arcidiocesi di Ayacucho, nel pieno della guerra contro il terrorismo (come ha riconosciuto anche la Commissione della Verità e della Riconciliazione sui fatti di violenza avvenuti in Perù dal 1980).                                                                                                 (2 – fine)

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