Arroganti, impreparati, disorganizzati. Proprio nel momento in cui il destino della City di Londra è nelle mani di Bruxelles, i lobbisti che dovrebbero rappresentarne gli interessi nella capitale europea si scoprono inadeguati. È quanto rivela un lucido rapporto stilato dal Centre for the Study of Financial innovation, influente think tank della finanza britannica. Ragazzi, non siamo capaci di fare lobbying, è il grido d’allarme dell’autore del report. Difficile credergli, se non si trattasse di Malcolm Levitt, figura storica nei rapporti del Regno Unito con la Ue: ex consigliere del Tesoro britannico e senior advisor di Barclays, è uno che ha seguito in diretta tutte le fasi dell’euro da prima che nascesse, quello che ha fornito alla lady di ferro le argomentazioni economiche per dire alla Ue «I want my money back» alla fine degli anni Settanta, e che ha seguito da vicino il rapporto Cockfield dell’85, che ha dato origine al Mercato Unico.
Da una settantina di interviste (anonime) con esponenti sia della City che delle istituzioni europee, Levitt traccia un quadro sconfortante. Abituata a sentirsi la regina della finanza continentale, la City sembra aver scoperto da poco che i conti si sempre di più fanno a due ore di Eurostar da lì, nella vituperata Bruxelles. Dallo scoppio della crisi finanziaria dell’autunno 2008, infatti, le istituzioni europee hanno un solo chiodo fisso: regolamentare. Che alla City piaccia o no.
Sono finiti i tempi delle direttive che consentivano ampio margine di manovra agli Stati membri. Da gennaio 2011, sono operative tre nuove autorità che hanno il compito di accentrare il controllo sui mercati finanziari, e che emettono regolamenti, ovvero standard ben precisi da rispettare alla lettera. Non aiuta il fatto che nessuno dei capi delle autorità sia madrelingua inglese. I banchieri devono piegarsi a negoziare con l’italiano Andrea Enria, a capo della European Banking Authority, il portoghese Gabriel Bernardino, che presiede la European Insurance and Occupational Pensions authority, e l’olandese Steven Maijoor, che è a capo della Securities and Markets Authority. Solo la prima ha sede a Londra, mentre le altre due hanno sede rispettivamente a Francoforte e Parigi.
Come se non bastasse, a capo della Direzione generale mercato interno, luogo chiave per tutte le riforme che riguardano i servizi finanziari, c’è il francese Michel Barnier, e il direttorato non conta neanche un britannico nei posti di potere. Il che prepara il terreno ad un vero e proprio scontro di civiltà. Una figura di spicco della finanza londinese ha commentato amaramente: «questa crisi ha dato loro un’occasione unica di scrivere le regole a loro piacimento».
«Loro» sarebbero tutti gli altri stati membri della Ue, che hanno sempre guardato con sospetto le pratiche della finanza londinese, a volte definite con disprezzo «casino capitalism». Stati membri che tra l’altro sono riusciti ad ingraziarsi parlamentari e funzionari grazie a strategie di lobbying vincenti. La secchiona per eccellenza, secondo i funzionari sentiti da Levitt, è la Deutsche Bank. Tutti, eurodeputati e funzionari, parlano bene del suo approccio ai problemi della finanza. «Prepara analisi di alta qualità su un ventaglio di argomenti, che vanno anche oltre il settore finanziario, e che vengono apprezzate come pensiero di ampio respiro e che aiuta a formare buone relazioni», è il verdetto di uno dei funzionari intervistati. Ma nell’elenco dei primi della classe spunta anche Unicredit, che per le relazioni con l’Europa ha la presenza fissa di almeno tre persone (secondo gli accrediti al Parlamento europeo) e nel 2010 ha speso per il lobbying una cifra dichiarata di 450.000 euro.
Mentre i banchieri londinesi, che vanno e vengono in giornata e sembrano evitare qualsiasi legame troppo stretto con Bruxelles, vengono visti come «arroganti» e «poco inclini» a spiegare ed argomentare le loro ragioni. «Non basta dire che la colpa della crisi non è stata loro», afferma un funzionario della Commissione europea. Ci vogliono argomentazioni più solide, studi e ricerche, di cui le istituzioni sono sempre golose, viste le risorse interne limitate per questo genere di funzioni. «Sì, così mettiamo loro in testa idee che non avevano», ha commentato cinico un senior banker londinese, sostenitore dell’approccio reattivo.
Secondo un funzionario intervistato da Levitt, i banchieri della City quando vanno a Bruxelles insistono troppo sui costi delle riforme, ignorandone i potenziali benefici per l’intera Europa. Insomma, guardano troppo al proprio giardino. Un executive della City, in effetti, fa il mea culpa sull’approccio avuto dai «colleghi» nell’affrontare il lobbying sulla Aifmd, la direttiva sui gestori di fondi alternativi. Siamo stati «arroganti» e «paternalisti», trattando chiunque non fosse del settore come uno stupido, ammette. Il risultato è una direttiva che anche l’Economist ha definito un «pasticcio», mentre il Daily Telegraph conduce una strenua battaglia per il suo «cestinamento».
Un altro aspetto che irrita non poco i funzionari è quando la City evidenzia con un po’ troppa enfasi la sua dimensione «globale, e non solamente europea». Se anche fosse vero, il consiglio è quello di lasciarlo passare in secondo piano davanti ad un’Europa perennemente in crisi di identità e non ancora troppo sicura di sé.
Il Regno Unito poi, si spazientisce davanti ai discorsi filosofici sulla visione d’insieme dell’Europa: «I continentali pensano a costruire l’Europa, noi no», sintetizza un banchiere. Forse per questo raramente i britannici si fanno vedere alle discussioni dei think tank bruxellesi, dove siedono al primo banco Deutsche e Bnp Paribas. Addirittura, rivela l’executive, è più facile vedere qualche società americana che un inglese a questi dibattiti. Discussioni che potranno anche sembrare pedanti, ma all’interno delle quali si creano relazioni, si danno anticipazioni e si dettano tendenze. Il rapporto di Levitt, insomma sprona la City a darsi una regolata, se non vuole perdere altre battaglie. All’orizzonte ci sono diverse scadenze, fra cui la revisione della MiFID, la riforma delle agenzie di rating e la revisione dei criteri sul capitale bancario. Il report di Malcolm contiene i suggerimenti tratti dal più classico dei manuali: coltivate le relazioni nel tempo, siate proattivi, costruttivi e disponibili, pensate nel lungo termine. E magari, in questo caso, sfoderare qualche parola di francese non guasterà.