Si parte disuniti, con mille e più motivi per fare festa, ma anche per non
dormire sonni tranquilli. Dovrebbe essere una festa, e forse lo sarà.
Si parte disuniti per un Giro che celebrerà i 150 anni dell’Unità d’Italia.
Si parte senza l’ultimo vincitore, Ivan Basso, che preferisce guardare al Tour de France anziché difendere la maglia rosa conquistata un anno fa.
Si parte disuniti e si perde qualche pezzo – più o meno pregiato – poco prima del via: non ci sarà l’ex campione del mondo Ballan, ma anche Santambrogio, Bruseghin e altri compagni di disavventure legate ad inchieste sul doping che non hanno ancora chiarito bene la loro posizione.
Si parte da Torino sabato prossimo, con una cronosquadre simbolo di unione, appartenenza e coesione. Una cronosquadre per assegnare la prima maglia rosa, che andrà però sulle spalle di un solo corridore: così sabato a Torino, così il 29 maggio prossimo a Milano, dove la corsa celebrerà il suo vincitore finale, dopo aver disputato 21 tappe e percorso 3.514 chilometri.
È inutile negarlo, la «corsa rosa» numero 94 si porta dietro quest’anno «una preoccupazione diffusa», come dice senza tanti giri di parole Angelo Zomegnan, dal 2006 patron dell’evento. «Troppi sono i fronti aperti, alcuni sono persino imperscrutabili. L’entusiasmo per allestire questa corsa non manca, ci vorrebbe solo un po’ di serenità in più».
Il Giro d’Italia, simbolo della ricostruzione e di un Paese in movimento è uno dei tre eventi «nazionale popolari» scelti dal Governo per celebrare i nostri primi 150 anni (con Sanremo e la Coppa Italia di calcio, ndr). Una corsa però messa a dura prova dai continui scandali doping e dalle innumerevoli inchieste disseminate in tutto il Belpaese.
Sono una decina le Procure della Repubblica, oltre a quella di Mantova (una delle più attive, che vede coinvolte 32 persone, tra le quali il farmacista di Mariana Mantovana Guido Nigrelli e il suo braccio destro Sergio Gelati accusati di commercio di sostanze dopanti. Tra gli altri anche i vertici della Lampre, la squadra diretta da Beppe Saronni e capitanata da Damiano Cunego), a lavorare attorno al mondo delle due ruote: Perugia, Padova, Modena, Firenze, Bergamo, Milano, Lucca, Trento e Brescia. Ma impegnatissime anche Fbi e Interpol, che stanno lavorando da anni per incastrare Lance Armstrong – il sette volte vincitore del Tour – e il suo medico preparatore Michele Ferrari, ancora oggi punto di riferimento per alcuni dei migliori corridori del ciclismo mondiale. Un ruolo fondamentale e strategico ce l’ha Benedetto Roberti, pm della Procura di Padova, che coordina questa indagine internazionale dal luglio 2010. Se verrà provata la colpevolezza di Armstrong e Ferrari, l’effetto domino avrà effetti inimmaginabili: a rischio 70-80 corridori di ogni nazionalità e di altissimo livello. In un sol colpo potrebbe essere decapitato il vertice del movimento. Perché? Ferrari dal 2002 è inibito dal Coni, e per regolamento nessun atleta può frequentarlo. Pena appunto una squalifica.
Il Giro parte sotto una enorme lente d’ingrandimento, pronta a mostrare gli aspetti meno piacevoli del movimento. In questa occasione, volutamente, guardiamo il bicchiere mezzo vuoto. Sono tanti i motivi di preoccupazione. Alcuni li ha rimarcati il capo della sport italiano, il presidente del Coni Gianni Petrucci, che il 12 aprile scorso, in occasione della riunione di Giunta non è stato per nulla tenero: «Basta!», ha tuonato. «Basta, bisogna intervenire. Questo ciclismo non è più credibile». Parole dure, in una riunione che è passata alla storia e ha messo in grave difficoltà il presidente della Federciclismo Renato Di Rocco, che in 48 ore è dovuto correre ai ripari proponendo provvedimenti (dagli attuali 2 anni di squalifica ai 4 proposti) che dovranno essere ratificati al prossimo Consiglio Federale.
A preoccupare Petrucci ci sono appunto l’inchiesta di Mantova, quella che suppone un doping di squadra (Lampre); l’inchiesta americana che fa tremare il mondo; le provocatorie parole di Riccardo Riccò, già squalificato per 20 mesi per una positività al Cera al Tour e all’inizio dell’anno finito al pronto soccorso in fin di vita secondo quanto dichiarato dallo stesso ospedale dopo essersi sottoposto ad autoemotrasfusione: «Ora sto bene, voglio tornare a correre», ha detto garrulo il modenese una ventina di giorni fa. E poi il poco gradito ritorno alle competizioni di Davide Rebellin, il quale detiene il triste record della cancellazione della medaglia d’argento di Pechino per una positività al Cera, mai digerita al palazzo del Coni e al suo capo Petrucci: solo il ciclismo è riuscito a tanto.
«Nel ciclismo, prima di stappare una bottiglia di champagne, bisogna aspettare otto anni: quelli della prescrizione». Questo è quello che andrebbe in giro dicendo Petrucci dal fattaccio di Pechino. Da quella vergogna mondiale, che è costata la faccia allo sport italiano. Ma Petrucci cosa rimprovera a Di Rocco? L’eccessiva prudenza. Mai una parola forte, mai una parola. Su Riccò, su Rebellin, sui fatti di Mantova, su quelli ancora più spettrali dell’inchiesta americana: silenzio. La linea guida è quella del lasciar decantare le cose. E intanto il ciclismo pedala su strade impantanate.
Si parte disuniti, ma anche scomposti, con una figura che perlomeno creerà disagio e imbarazzo. Al Giro ci sarà Alberto Contador, il fuoriclasse spagnolo che in carriera ha già vinto un Giro, una Vuelta e tre Tour. In verità il terzo Tour, quello dello scorso anno è ancora lì, «sub judice» a causa della positività al clenbluterolo. La sua federazione, quella spagnola l’ha assolto, la Wada (l’organizzazione mondiale dell’antidoping) e l’Uci (l’Unione Ciclistica Internazionale) hanno fatto ricorso al Tas (Tribunale dell’arbitrato sportivo di Losanna). Entro la fine di giugno, prima del Tour, la sentenza definitiva. Quindi Contador potrebbe vincere il suo secondo Giro e poi, in caso di squalifica, vederselo cancellare.
Si parte disuniti in uno stato di precarietà: mai come quest’anno il Giro d’Italia è l’immagine di un Paese.
* direttore di Tuttobici