Vinsero i no. Sono passati trent’anni da quel 17 maggio 1981, e l’aborto è un diritto. Se fino al 1978 (anno di approvazione della 194, salvata nel maggio 1981 dal referendum) era la legislazione italiana a punire con l’arresto le donne che abortivano, sono oggi le lunghe braccia di una legge (che funziona) a metterne in pericolo l’effettiva attuazione.
È uno dei tanti paradossi che segnano l’anomalia italiana. Quella di un paese che, fatta una legge, dimentica le politiche efficaci per praticarla. I dati raccontano una storia piuttosto leggibile: diminuiscono gli aborti e aumentano gli obiettori, aumentano gli obiettori e diminuiscono i consultori.
Secondo la relazione sulle interruzioni volontarie di gravidanza del Ministero della salute (riferite all’anno 2008 con proiezioni sul 2009) l’Italia presenta un tasso di abortività fra i più bassi d’occidente. Dal picco del 1982, anno in cui si è registrato il maggior numero di interruzioni volontarie, i casi sono progressivamente calati, arrivando al -50,2% del 2009 (con un decremento rispetto al 2008 del 3,6%).
Paradossalmente, crescono gli operatori che dicono no. Dal 2005 al 2008 gli anestesisti sono passati dal 45,7% al 52,6% e il personale non medico dal 38,6% al 43,3%. Ma il dato più significativo riguarda i ginecologi obiettori che dal 58,7% salgono al 71,5% raggiungendo percentuali altissime in molte regioni: Lazio (85,6%), Basilicata (85,2%), Campania (83,9%), Molise (82,8%), Sicilia (81,7%) e Veneto (80,8%). Questo significa che sette ginecologi su dieci, negli ospedali italiani, non praticano l’aborto. E significa che nella trama di una legge che stabilisce sì un diritto, ma condizionato, gli obiettori paralizzano, secondo coscienza, la libera coscienza delle donne che la stessa legge istituisce.
Vi è un ulteriore passaggio. I dati sulle obiezioni risuonano, con inverse proporzioni, nella mappa italiana dei consultori pubblici. Solo otto regioni rispettano il parametro previsto dalla legge 34/1996 (1 consultorio ogni 20 mila abitanti). Molise, Friuli Venezia Giulia e Lombardia si fermano alla percentuale dello 0,4. E la direzione ostinata, è contraria all’adeguamento: pochi stanziamenti e leggi regionali a favore di una privatizzazione. In Lazio, ad esempio, la proposta è stata avanzata da Olimpia Tarzia (Lista Polverini) che oltre ad essere prima firmataria è anche Vice presidente nazionale della Confederazione Italiana Consultori Familiari di Ispirazione Cristiana e tra i fondatori del Movimento per la Vita.
Cecilia Taranto e Massimo Cozza, segretari nazionali Funzione pubblica Cgil, lanciano l’allarme: “Queste percentuali ostacolano le tutele e i diritti riconosciuti alle donne dalla legge 194”. Ma perché l’obiezione si dichiara solo dopo l’assunzione? E in che modo l’organo di gestione di un ospedale, se obiettore, influisce sulla praticabilità della legge lasciando spazio alla possibilità di un’obiezione di coscienza strutturale? Pressioni religiose a parte, spiega Cecilia Taranto, “si costruisce una condizione nella quale il medico viene indotto a dire no. Se la struttura si modella sulla maggioranza degli obiettori, i medici che non lo sono vivono una sorta di condanna: o è loro preclusa la possibilità di lavorare a tutto campo o si penalizza la loro carriera. Fino ad ora non è stato possibile pretendere la scelta preventiva della non obiezione (come si è tentato di fare in Puglia), ma il rispetto della legge richiede che le organizzazioni ospedaliere si adeguino”. E, nella maggior parte dei casi, lo fanno ricorrendo a liberi professionisti esterni, con spese superiori e tempi eccessivi.
La richiesta è semplice: rispettare la legge e aprire un tavolo di confronto nazionale: “Creare” interviene Massimo Cozza “tutte le condizioni perché i non obiettori possano esercitare compiutamente e senza venire penalizzati il loro lavoro. Utilizzare la mobilità, prevista dalla 194, per garantire il servizio negli ospedali e nei consultori e compensare le carenze di medici e infermieri non obiettori. Introdurre la preferenza per la non obiezione tra i requisiti di chi deve essere assunto o trasferito in strutture con oltre il 50% di obiettori. E a loro affidare la responsabilità dei presidi medesimi. Cos’altro deve fare il servizio pubblico se non garantire il diritto alla salute e l’applicazione della legge?”.