Dopo l’esperienza personale della Resurrezione – di Pietro, del discepolo prediletto e di Maria Maddalena – assistiamo ora all’incontro del Risorto con la comunità.
II Domenica di Pasqua
Giovanni 20, 19-23
Essendo dunque la sera di quel giorno, il giorno uno dei sabati (=primo della settimana) ed essendo sprangate le porte dove erano i discepoli per la paura dei Giudei, venne Gesù e stette nel mezzo e dice loro: «Pace a voi». E detto questo mostrò loro le mani e il fianco. Allora gioirono i discepoli, avendo visto il Signore. Allora disse loro Gesù di nuovo: «Pace a voi. Come il Padre ha mandato me, anch’io invio voi». E detto questo, insufflò e dice loro: «Accogliete Spirito Santo. A chi rimettete i peccati gli sono rimessi, a chi li ritenete, sono ritenuti».
Apostoli e i discepoli hanno sentito le parole di Maddalena e delle altre donne, che hanno annunciato: «Abbiamo visto il Risorto». Il Vangelo di Luca (24,11) dice che il loro annunzio parve agli Apostoli un vaneggiamento di donne, e non credettero.
Essendo dunque la sera di quel giorno, il giorno uno dei sabati (= primo della settimana), ed essendo sprangate le porte dove erano i discepoli per la paura dei Giudei, venne Gesù e stette nel mezzo e dice loro: Pace a voi.
Rispetto alla scena della Resurrezione, c’è un contrappunto. Prima era l’alba, ora è sera; prima si era nel giardino, ora al chiuso con porte sprangate. Accanto a un sepolcro vuoto, quello di Gesù, c’è come un altro sepolcro pieno, dove i discepoli sono “chiusi per paura”. Sono come morti: ammucchiati ma non unificati, perché la paura disgrega. C’è l’implicito terrore che, dopo Gesù, facessero fuori anche loro: paura improbabile. Quasi tutte le paure sono improbabili. Però ci sono e sono realissime. Ci chiudono agli altri, fanno buia la nostra esistenza e il nostro cuore diventa un sepolcro. Questa paura è condita con sensi di colpa e reciminazioni: io ho rinnegato il Signore, però anche tu sei fuggito, quell’altro si è nascosto, e noi siamo stati tutti… Qui si manifesterà il Signore.
Gesù entra in questo sepolcro. Non gli fa difficoltà – questo è molto bello – di venire fra persone che Lui ha scelto, delle quali uno lo ha tradito, l’altro l’ha rinnegato, gli altri sono fuggiti, e tutti l’hanno abbandonato. Non si vergogna di chiamarli fratelli. Viene e cosa fa? Rimprovera? No. Recrimina? Nemmeno. Annuncia la pace? Non esattamente. Lui dà la pace.
Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. Allora gioirono i discepoli, avendo visto il Signore.
Nel mostrare le mani e il fianco, Gesù dà la sua carta d’identità: è il Crocifisso, con il segno dei chiodi nelle mani e il fianco trafitto. La mano indica il potere: noi con la mano facciamo e disfiamo tutto. Le sue mani hanno lavato i piedi, le sue mani sono state inchiodate in Croce – inchiodate per schiodare l’uomo dalla schiavitù del potere e dargli la libertà di servire. Questo è il potere della mano di Dio: lavare i piedi ed essere inchiodata a servizio d’amore per ogni uomo.
«Allora gioirono»: la gioia è il segno della presenza di Dio. Lui dice: “pace”, ed è una pace che diventa gioia, gioia pacifica e pace gioiosa. Due cose che spesso ci mancano: sono il segno della presenza del Risorto e il segno che anche noi siamo risorti con lui. Essere nella pace e nella gioia: grande sogno di tutti. Sei in pace quando hai raggiunto l’obiettivo e nella gioia quando sei nell’amore, nella vita piena. Se no, sei nella morte perché ti mancano le cose essenziali. Dalla contemplazione di mani e fianco scaturisce la gioia, e da questa la nostra “missione”. Gioia o tristezza sono il principio di ogni nostra azione. Quando siamo tristi, o facciamo nulla o facciamo male a noi e agli altri. Se la tristezza è principio di ogni male, la gioia invece è principio di ogni azione buona.
Allora disse loro di nuovo: Pace a voi. Come il Padre ha mandato me, anch’io invio voi.
L’amore è sempre missione: ti porta fuori di te e ti manda verso l’altro. L’uomo è missione: è rivolto all’altro, altrimenti è un “non uomo”. È un morto chiuso nella tomba. Andando verso i fratelli noi diventiamo figli, perché abbiamo verso di loro lo stesso amore del Padre.
Qualche volta ci si chiede: cosa deve fare il cristiano? Semplicemente sapere due cose: il Padre ha mandato il Figlio in questo mondo per rivelare il suo amore di Padre, e il Figlio l’ha rivelato amando i fratelli. Quindi anche noi, se siamo figli, andiamo verso i fratelli amandoli con lo stesso amore del Padre. È questa l’unica missione del cristianesimo. Si può manifestare questo amore in tanti modi. Forse anche appendendo crocifissi nelle aule…. non saprei. Non credo però!
Ci sono tanti modi di intendere la missione del cristiano. Comunque, qui il modo è preciso: Come il Padre ha mandato me, ecc… Il Padre non ha mandato il Figlio in Croce. In croce l’abbiamo messo noi: l’hanno ucciso per bestemmia i religiosi e per sovversione i potenti. Allora come adesso. Il Padre l’ha mandato per un’altra cosa: per manifestare all’uomo, a ogni uomo, il suo amore senza se e senza ma. Di questo è segno il Crocifisso e noi siamo mandati da lui a fare altrettanto. Il Crocifisso è importante non come segno esterno da appendere qua e là, ma come testimonianza di un amore più grande di ogni odio e egoismo. Per questo il cristiano, più che di attaccare crocifissi alle pareti, si preoccupa di staccare dalla croce tutti quei poveri cristi che vi appendiamo senza tanti scrupoli.
E detto questo, insufflò e dice loro: Accogliete Spirito Santo.
‘Insufflò’ è parola rarissima nel Nuovo Testamento: c’è solo una volta. Nell’Antico esce due volte: quando Dio, in Genesi, insufflò la vita in Adamo e quando lo Spirito, in Ezechiele 37, soffia dentro le ossa aride per farle rivivere. È l’azione di Dio che dona vita creando e ricreando. Cristiano è chi accoglie il dono che Gesù ci fa del suo Spirito. Spirito significa respiro, vita. E la vita, il respiro di Dio è l’amore. Il dono di vivere come lui. Ma un dono se non è accolto, cade a terra. Tutta la vita cristiana non è altro che accogliere, giorno dopo giorno, il dono dello Spirito. Tra l’altro, nell’originale c’è “accogliete Spirito Santo”, senza articolo. Non c’è l’articolo determinativo perché lo Spirito non è mai finito e determinato, ma cresce giorno dopo giorno, sempre di più. Tipico dell’amore: o cresce o non è amore.
A chi rimettete i peccati gli sono rimessi, a chi li ritenete sono ritenuti.
Lo Spirito di Dio si manifesta nel perdonare i peccati. Noi conosciamo tanti poteri che ci legano nel male. L’unico potere di Dio è quello dell’amore, che tutto dona. Quando l’amore è trasgredito, allora il suo amore si rivela come assoluto e incondizionato: il dono diventa per-dono, cioè super-dono. Nel perdono ogni relazione è rinsaldata e il male diventa rivelazione di un amore più grande del male stesso. La vita è bella se c’è perdono; se non c’è, è spietata.
«A chi perdonate i peccati, gli sono rimessi»: vuol dire che se non perdoniamo, i peccati non sono perdonati. Non perché Dio non perdoni. Dio in cielo perdona sempre. Ma noi in terra abbiamo il potere anche di non perdonare. E ciò che noi non perdoniamo, resta non perdonato. Abbiamo il potere, e lo usiamo molto, di inchiodare l’altro alle sue colpe! Facendo così, facciamo il contrario di Dio. Se noi non perdoniamo agli altri, rifiutiamo Dio stesso, che è amore, dono e perdono.
«A chi li ritenete sono ritenuti»: sembra una contraddizione. Devo perdonare o devo ritenere i peccati? I termini “rimettere” o “ritenere” sono opposti, come entrare/uscire. In ebraico le opposizioni appaiate indicano totalità. Questo vuol dire che io ho tutto il potere di perdonare. Se non lo uso, vado contro Dio che sempre perdona. Questo è il primo senso del testo, quello fondamentale. Ce n’è anche un altro: la comunità ha il potere di ritenere i peccati, ma solo nel senso di dichiarare che il peccato non è stato perdonato.
Supponi che io ammazzi o rubi e dica: ho fatto bene e fesso è chi si fa derubare e ammazzare! Questo peccato non è rimesso: me lo tengo addosso. Allora tu, singolo o comunità, dichiari che il mio peccato rimane. Non per condannare me ma per farmi prendere coscienza del mio male, in modo che me ne vergogni e ne esca. È una denuncia come quella di Gesù ai farisei quando dice: il vostro peccato rimane. Non li vuol condannare, ma vuole che riconoscano il loro peccato per chiedere il perdono.
Il potere di denunciare il peccato è buono: è atto di misericordia dire che il male è male. Oggi si vede in molte persone di chiesa – anche preti e vescovi – una confusione. C’è chi confonde il perdono col “perdonismo”: tutto va bene ed è perdonato, senza alcun coraggio di denuncia. È un imbroglio. Non si perdona il male, ma chi l’ha fatto – perché si vergogni e smetta di farlo. Gesù odia il peccato perché ama i peccatori. Noi tante volte non denunciamo, anzi amiamo il peccato: per questo odiamo i peccatori oppure ci facciamo loro complici per averne vantaggi. Nostro fine, come quello di Gesù, è perdonare e graziare il peccatore, non il peccato. Il peccato invece è rimesso, mandato via, allontanato dal peccatore perdonato. Chi si sa accettato e amato, allontana da sé ogni male, la cui radice è la mancanza di accettazione e amore.
*biblista e scrittore
Il testo è una sintesi rivista e autorizzata della lectio divina tenuta nella Chiesa di San Fedele in Milano nel corso di vari anni. L’audio originale può essere ascoltato qui.
Nella foto: Gaetano Orazio, «Silentium», acrilico su carta, 2011 – per gentile concessione di Galleria Blanchaert, Milano