Dalla Turchia alla Siria, la Schengen del Medio Oriente

Dalla Turchia alla Siria, la Schengen del Medio Oriente

«Non abbiate paura dei vostri popoli, quello che sta accadendo oggi nella regione porterà alla prosperità». È il succo del messaggio di Mehmet Şimşek, ministro delle Finanze della Turchia ed economista di origini curde, alla folta platea del sesto Forum economico turco-arabo (Taf 2011) tenutosi la scorsa settimana a Istanbul. Convinto ottimista, Şimşek considera la primavera araba una preziosa opportunità per costruire in Medio oriente società floride e istituzioni più solide.

La Turchia ha assicurato il proprio sostegno per incrementare gli investimenti e l’interscambio commerciale bilaterale che, grazie alle politiche di apertura dell’Akp, il partito al potere, ha raggiunto i 33,5 miliardi di dollari nel 2010 contro i 6,9 del 2002. Un approccio di cui ha riconosciuto l’invidiabile successo Rouf Abou Zaki, amministratore delegato di Al-Iktissad Wal-Aamal, il gruppo che ha realizzato l’evento insieme al Comitato turco per le relazioni economiche estere (Deik): «l’esperienza turca è la miglior prova che politiche economiche adeguate possono condurre a risultati altisonanti a livello internazionale». Applausi di consenso e ammirazione.

La ricetta del governo di Erdoğan è semplice e s’ispira alla visione di «profondità strategica» elaborata dal ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu, cioè: superare il contenzioso bilaterale con tutti i vicini, anche quelli “storici” (Grecia e Armenia); creare nelle proprie periferie (Balcani, Russia, Caucaso, Asia centrale, Medio oriente) meccanismi istituzionalizzati di cooperazione politica ed economica; dar vita a medio-lungo termine ad aree regionali di libero scambio in regime di libera circolazione delle persone, diversificando al massimo i mercati di sbocco; ricostruire, più in generale, le interconnessioni proprie dell’era ottomana – politiche, economiche e culturali – spazzate via dalla dissoluzione dell’Impero e dall’imposizione dei mandati dopo la fine della Prima guerra mondiale, su base paritaria e non più egemonica.

Ricetta che ha permesso di confezionare il Quartetto del Levante – Shamgen: un’area di libero scambio tra Turchia, Siria, Giordania e Libano, aperta all’adesione di altri paesi mediorientali e accompagnata dall’abolizione, già avvenuta, dei visti d’ingresso. Shamgen, una sorta di Schengen del Mediterraneo orientale (Sham è il nome arabo di Damasco e in precedenza della Siria) da far pienamente decollare entro il 2023, nella solenne occasione del centenario della Repubblica di Atatürk.

Con la Dichiarazione di Istanbul nello scorso giugno, Turchia, Siria, Giordania e Libano hanno dato vita a un Alto consiglio quadripartito di cooperazione politica: per risolvere attraverso negoziati diplomatici le loro controversie, per affrontare in modo congiunto i problemi di sicurezza comuni, per assicurare libera circolazione delle persone e delle merci. Una partnership strategica in piena regola, da estendere a tutto il Medio oriente: in primo luogo all’Iraq e all’Iran.

Un mese dopo, sempre a Istanbul, i ministri del commercio dei quattro hanno immediatamente avviato il Consiglio di partnership economica e commerciale tra vicini, che dovrà occuparsi anche di grandi progetti infrastrutturali. Tra i primi troviamo una diga sul fiume Asi al confine tra Turchia e Siria e con l’interesse del Libano, un treno ad alta velocità tra la turca Gaziantep e la siriana Aleppo. Sono stati calendarizzati incontri periodici tra i ministri dell’energia, dei trasporti, del turismo, con risultati concreti e fulminei. Ed è arrivato anche l’impegno attivo dei privati, riuniti nel Business forum del Levante formalmente varato a dicembre e già altamente propositivi: con 75 progetti lanciati – in tutti i settori dell’attività economica – di cui si attendono i primi risultati già nel 2014.

In visita in Libano lo scorso novembre, così il premier turco ha sintetizzato la filosofia di Shamgen: «anche se parliamo lingue diverse, non dobbiamo dimenticare che abbiamo valori comuni, una storia e una cultura condivise». E ancora: «vogliamo rendere possibile [attraverso l’abolizione dei visti] un’aspirazione delle nostre genti vecchia di centro anni». Nostalgia per l’Impero ottomano? Tentazioni neo-imperiali? Abbandono dell’opzione europea per svoltare a Oriente? Assolutamente no.

Erdoğan e Davutoğlu hanno semplicemente compreso che la Turchia potrà continuare la sua crescita economica a ritmi vertiginosi solo rendendo stabile il suo turbolento vicinato, esteso dal mar Nero al Mediterraneo orientale: l’integrazione economica e la cooperazione politica su base multilaterale, anche in nome della solidarietà tra “popoli fratelli”, sono gli strumenti più efficaci di cui dispone.

Shamgan guarda infatti lontano ed Erdoğan non si fa condizionare dalle violenze in Siria nelle ultime settimane: Ankara ha suggerito caldamente al Presidente Assad di cessare la repressione sanguinosa delle manifestazioni anti-regime, ha offerto consulenze riformiste e un piano di aiuti. I primi rifugiati siriani sono stati calorosamente accolti e sistemati nella provincia di confine di Hatay (Antiochia), e Davutoğlu ha escluso ogni possibile reintroduzione temporanea dei visti d’ingresso. Obiettivo 2023, con o senza Assad.
 

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