La politica resta una faccenda per soli uomini. Lo studio condotto dall’Anci (su dati del ministero dell’Interno) testimonia la presenza di 3.976 candidati sindaco alle amministrative in corso, di cui 3.419 maschi (l’86%) e 557 donne (il 14%). In ben 800 comuni la sfida è tutta giocata al maschile. Quando si lavora su ciò che le donne hanno dato alla storia e ciò che ne hanno avuto in cambio ci si trova di fronte a un movimento costante: il protagonismo femminile, inizialmente accettato, nel punto dell’occupazione del potere sembra diventare insopportabile, per motivi diversi, sia agli uomini che alle stesse donne. I dati sulle amministrative non sono che un nuovo capitolo della medesima storia. Arrivano, comunque andrà, con il peso dell’assenza e dopo un’appariscente mobilitazione femminile nelle piazze. Ne parliamo con Adriana Cavarero, filosofa ed esponente del pensiero della differenza sessuale che ha da poco pubblicato con Angelo Scola, per Il Mulino, “Non uccidere”.
Se non la politica, quali i luoghi della libertà e dell’autorità femminili?
Nell’ambito del lavoro, delle risorse umane, della comunicazione e in molti altri le donne hanno risultati produttivi. Sono poi convinta che abbiano una loro grande occasione nell’educazione: come madri e come insegnanti. Non va sottovalutata la quantità, ma è l’elemento qualitativo che fa la differenza. Spesso i sociologi parlano di due Italie. Si dovrebbe dire che ce ne sono più di due e che una di queste è fatta dalle donne che influiscono nell’ambito dove scelgono di operare. La politica? L’immagine prevalente è quella di un blocco che non si sblocca e fino a quando non ci sarà un rinnovamento generazionale anche le donne rimarranno sostanzialmente escluse.
Dove ha inizio l’indifferenza politica verso le donne?
La vicenda comincia con Aristotele che pensa l’uomo come soggetto razionale, avente un logos e perciò la capacità di fare politica, e la donna come naturalmente destinata all’ambito domestico. Ma ciò che le varie epoche definiscono come ‘naturale’ corrisponde a ciò che ritengono normale, conforme alla norma. La natura, insomma, è un concetto che dipende da un processo di normalizzazione operato da coloro che le norme le decidono. Questo paradigma attraversa la storia dell’occidente e arriva intoccato fino alla Rivoluzione francese.
Cosa cambia la Rivoluzione?
Una donna prende la parola. Olympe de Gouges, nel 1792, di fronte alla proclamazione dei diritti universali comincia a dire che l’uguaglianza e l’eliminazione delle differenze di ordine gerarchico valgono per gli uomini quanto per le donne. Non avrà successo e verrà decapitata. Nel frattempo, a Londra, Mary Wollstonecraft inizia a parlare di parità per le donne sul piano dell’educazione, ma sintomaticamente, perché impensabile, non chiede il diritto di voto. Da lì in poi partirà il movimento emancipazionista e, attraverso vicende complesse, si arriverà anche in Italia all’articolo 3 della Costituzione: un risultato perlomeno formale di uguaglianza.
L’idea di parità però non funziona. Donne purché donne, che siano a immagine e somiglianza degli uomini o che magari a quegli uomini piacciano.
L’odierna scena politica è nota. I numeri delle amministrative e le percentuali delle donne che fanno le politiche di professione non fanno che confermarla. Le cifre variano da paese a paese, ma sono in Italia tra le più basse d’Europa. L’uguaglianza formale, dunque, non si traduce in sostanza. Per cui ci ritroviamo nella finzione di un principio che, omologando le donne agli uomini, viene palesemente ma coerentemente contraddetto da un ordine simbolico che continua ad essere quello di Aristotele. Se a questo aggiungiamo il fatto che da noi si è diffusa un’immagine del femminile per cui una carriera politica non sembra avvenire attraverso la libera competizione, capiremo perché il patriarcalismo è in Italia più greve che altrove: il blocco non è rappresentato soltanto dallo stereotipo della donna come naturalmente domestica ma dal corpo femminile erotico che, se disponibile ad uno scambio, può elevarsi alla sfera della politica.
Al mercato del potere certamente Berlusconi si è distinto, ma nell’intero panorama politico assistiamo ad atteggiamenti compassionevoli, protettivi, strumentali e a balbettii quando si tratta di nominare cariche ricoperte da donne. Destra o sinistra, non c’è scampo?
In Italia i luoghi della politica e quelli, in generale, del potere sono occupati da vecchi. Guardiamo una fotografia del parlamento: vedremo una miriade di teste grigie e qualche tailleurs rosa. Non abbiamo solo il maschile che subordina il femminile, ma un maschio dominante e narcisista che mantiene il dominio e quella subordinazione fino a un’età avanzata. Un altro modo di pensare la politica e di fare resistenza al virilismo è stato qualche volta strategicamente valorizzato dalla sinistra, ma difficilmente tradotto in prassi e reale presenza femminile nelle liste elettorali. Ci sono, dunque, vari gradi a seconda dei partiti e delle persone, ma quello occupato da Berlusconi e dal circo che gli si muove intorno è di una volgarità mai raggiunta prima nel luogo del discorso politico.
Discorso che non ha nemmeno imparato il corretto uso del femminile. Maschili che non danno segni di cedimento (‘il ministro’ anche quando si tratta di una donna), femminili storpiati, nomi maschili con articoli femminili. Mentre per operaia e commessa abbiamo meno imbarazzo, anche se i plurali continuano a restare un problema: pensiamo a ‘i tessili’, e chi lavora nel tessile sono soprattutto donne. Questa particolare resistenza è del tutto coerente con le cornici patriarcali grevi di cui parlavamo. Pensiamo alla parola segretario e segretaria. Declinato al maschile è il capo di un partito, mentre al femminile è la donna che batte a macchina e che ora batte al computer.
Il gesto inaugurale del femminismo fu quello separatista delle donne che, nei primi anni Settanta, se ne andarono dal convegno di Lotta continua. Pur non essendo l’esclusione dichiarata, continuano oggi a ripetere quel gesto?
La radice di quello e di questo gesto non è una semplice aspirazione all’uguaglianza, ma sta nella diversa concezione della politica e della sua pratica inconciliabili con l’emancipazionismo, con le donne che fingono di essere uomini. Nel corso della mia vita mi è stato più volte detto che avevo un’intelligenza maschile, e pensavano di farmi un complimento. L’auto-esclusione delle donne scatta perché non si vuol partecipare all’attuale catastrofe estetica, morale e politica. Quando non si intravede un cambiamento, ed è comprensibile, ci si può astenere. Per non rischiare di finire in quel luogo dove si aiuta a far girare la giostra.