Per i palestinesi questo è un nuovo anno zero. L’ennesimo, verrebbe da dire. Ma l’accordo siglato il 4 maggio da Hamas e Fatah per la riconciliazione nazionale e una roadmap verso nuove elezioni legislative si inserisce un contesto regionale del tutto diverso.
Gli attori sono gli stessi, ma hanno maturato in questi ultimi cinque anni, dal giorno della spaccatura dopo la vittoria del movimento islamista e la praclamazione di un governo autonomo a Gaza, posizioni spesso divergenti che sembrava impossibile ricucire. Molto hanno influito su questa ennesima svolta le rivolte arabe che stanno attraversando quasi senza soluzione di continuità l’area vasta che va dal Maghreb al Levante. Disuniti, hanno pensato le leadership palestinesi, sarà inevitabile prima o poi un contagio; disuniti sarà più difficile far valere le ragioni di parte, ora che alcuni degli sponsor storici della causa palestinese – Egitto e Siria in testa – hanno altri problemi a cui pensare. Ma soprattutto, disuniti sarà impossibile provare a tenere agganciata l’America al ruolo di honest broker nel negoziati infinito con Israele, ora che al centro della situation room della Casa Bianca le carte geografiche e le piante di Gerusalemme o Gaza sono state sostituite da quelle di Damasco, Sana’a e Riad.
Facendo di necessità virtù, le leadership palestinesi provano a non restare travolte dall’onda lunga della primavera araba e mettono – chi sa per quanto – da parte i conflitti sulla organizzazione delle istituzioni, sul negoziato con gli israeliani, sulle colonie in Cisgiordania, sulla gestione della sicurezza. Hamas ha dovuto cedere molte posizioni in tal senso, soprattutto dopo i ripetuti fallimenti nella gestione del territorio a Gaza. La Striscia è oggi un concentrato di mafie transnazionali e movimenti integralisti islamici di varia natura; i campi di addestramento delle reti del terrorismo sono molto più numerosi delle nuove abitazioni, delle infrastrutture o dei centri economici.
La pressione, poi, che da lì si esercita verso il Sinai e l’Egitto in equilibrio precario avrebbe potuto, a breve, provocare un effetto di riflusso, con la chiusura definitivo del valico di Rafah e l’impossibilità di mobilitare un numero significativo di profughi verso l’Egitto. L’accordo, insomma, soddisfa entrambe le parti: a settembre, Abu Mazen potrà recarsi all’Assemblea Generale dell’Onu e chiedere quel riconoscimento internazionale di uno Stato palestinese all’interno dei confini del 1967 che è la ragion d’essere principale di al Fatah; il leader spirituale di Hamas, Khaled Meshaal, deve fare le valigie al più presto da Damasco, dove Assad potrebbe essere travolto nel giro di poche settimane. Rientrare a Ramallah con tutti gli onori sarebbe per lui motivo di rafforzamento.
La rapidità con cui si è giunti alla firma dell’accordo ha sorpreso non solo analisti e osservatori internazionali, ma soprattutto i tre attori comprimari: Israele, Turchia e Stati Uniti. Nelle tre cancellerie non si credeva ad un’accelerazione di questa portata né si scommetteva sulla possibilità che Abu Mazen accettasse, di fatto, di cedere la leadership ad una sorta di comitato esecutivo ad interim anche in Cisgiordania. Per Israele, tutto sommato, la notizia non è un dramma. Qualsiasi futuro fallimento di un eventuale, nuovo negoziato di pace potrà pur sempre essere imputato all’intransigenza di Hamas. Allo stesso tempo, anche Tel Aviv potrà chiedere a Washington di non allontanarsi troppo dal dossier israelo – palestinese, che ogni giorno di più scende nella scala delle priorità della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato.
Un sodalizio così rapido però ha avuto un sensale di eccezione: l’Egitto del dopo Mubarak. Al Cairo i giochi sono stati fatti in gran segreto e senza un canale di comunicazione diretto con Washington. Un cambiamento epocale rispetto ad appena pochi mesi fa, quando pure il crocevia di ogni assetto inter-plaestinese era all’ombra delle Piramidi. Ma un gigante della sicurezza e della diplomazia regionale come Omar Suleiman, premier per qualche giorno e a lungo capo dell’intelligence egiziana, nella sua spola tra Gaza e Gerusalemme, non mancava mai di avvertire Washington e Ankara. Il gran manovratore di questo accordo politico è stato invece il ministro degli Esteri del governo provvisorio egiziano, Nabil al Arabi, assieme al suo omologo di Hamas, Mahmud Zahar.
Suleiman vedeva e riconosceva il pericolo che la Striscia di Gaza costituisse un safe heaven per terroristi di ogni sorta, magari manovrati dall’Iran. Nei cablogrammi pubblicati da Wikileaks vengono riportati i colloqui tra Suleiman stesso e l’ammiraglio Michael Mullen, capo di Stato maggiore delle Forze Armate americane: vi si parla di carichi di armi provenienti dall’Iran, di campi di addestramento monitorati dall’intelligence egiziana e così via. La mediazione egiziana di oggi è di colore e segno diversi: Hamas sa di avere una sponda in più, soprattutto grazie alle pressioni dei Fratelli Musulmani che al Cairo, in attesa di sapere quanti voti otterranno effettivamente alle urne, tengono sotto pressione il governo provvisorio. Subito dopo la firma dell’accordo tra Fatah e Hamas, al Arabi ha alzato il telefono come il suo predecessore Suleiman; ma il numero composto è stato quello di Ali Akbar Salehi, ministro degli Esteri della Repubblica Islamica a Teheran.