New York in strada per bin Laden, stavolta con le scarpe

New York in strada per bin Laden, stavolta con le scarpe

Quella primavera nessuno voleva staccarsi dal televisore. Il bel paladino della libertà, addestrato a Wharton, che aveva catturato Saddam assunse la leadership di un governo iracheno provvisorio, che ottenne ampio appoggio da parte di Sunniti, Sciiti e Curdi. A Wharton era uscito con ragazze ebree. Quasi tutte le truppe di coalizione avevano lasciato l’Iraq salutate da iracheni in festa che sventolavano bandiere, allineati lungo le strade principali che portavano all’aeroporto di Baghdad. Gli israeliani e l’Olp avevano raggiunto un accomodamento territoriale e un accordo per spartirsi la sovranità di Gerusalemme.

E poi, proprio mentre l’estate stava per cominciare, Osama bin Laden fu trovato tutto raggomitolato in un lurido tappeto all’interno di una caverna nascosta tra le terre montagnose tribali e anarchiche al confine tra Iraq e Afghanistan. “Lo hanno preso!”, strillò la segretaria di Eduardo, correndo nell’area dove si trovavano le postazioni di lavoro della maggior parte degli impiegati della divisione. Era in piedi al centro della stanza e muoveva su e giù i pugni sopra la testa; gridò un’altra volta: “Lo hanno preso!”.

Tutti sapevano a chi si riferisse. Marshall e i suoi colleghi si precipitarono alle finestre, piangendo di gioia. Anche dall’altra parte della strada, in altri uffici, la gente festeggiava e alzava le braccia. Si levarono grida dalla strada dieci piani più giù, e le macchine e i taxi suonavano i clacson tutti insieme. Nell’ufficio di Marshall, i suoi colleghi si abbracciavano e si davano il cinque, tutti con il volto sorridente. Una giovane donna con un leggero abito estivo abbracciò Marshall e lo baciò. Sapeva che era stato nelle Torri gemelle. “Devi essere emozionato”, disse lasciando l’impronta del suo corpo su quello di Marshall, mentre si scostava. Era la prima volta in tanti anni che era stato baciato da una donna che non fosse,
diciamo, sua madre.

Abbandonando le ventiquattrore, i suoi colleghi si precipitarono fuori dall’ufficio. Marshall li seguì e, quando trovarono un ingorgo nell’ingresso dell’ascensore, scesero per le scale. Anche la scala era intasata, e tutti erano pazienti mentre si congratulavano l’un l’altro e si stringevano la mano. Uscirono in fila indiana su Broadway.

La folla si era già riversata per la strada. Marshall sapeva esattamente dove fosse diretta. Stavolta procedevano verso downtown, e stavolta avevano le scarpe ai piedi. A Broadway era stato sgomberato il traffico, tranne una fila di camion dei vigili del fuoco, con i pompieri che lanciavano baci a uomini e donne. Alcuni pompieri piangevano, mentre agitavano manifesti con le immagini dei loro
compagni caduti. La gente per la strada batteva sulle fiancate dei veicoli, in festa, e si allungava per stringere le mani e le braccia dei pompieri. Una bandiera americana sventolava su quasi ogni finestra praticabile di ogni Torre adibita a ufficio.

Coriandoli appena tagliuzzati cadevano in una tormenta multicolore. La folla li faceva alzare di nuovo. Superarono City Hall, rallentando mentre le strade che circondavano Ground Zero si riempivano di gente proveniente da ogni direzione, su da Battery e lungo Park Row, che si riversava in massa a City Hall Park. A Vesey premevano verso il cantiere e procedevano a fatica scendendo lungo l’isolato fino a Church Street e fermandosi all’incrocio per guardare l’infinito spazio vuoto che si elevava fino al cielo dalla fossa che scendeva fino alle fondamenta. L’umanità che rimbalzava contro di lui gradualmente si sparse per tutto il perimetro di quasi otto ettari, pressata contro il recinto di rete metallica.

Elicotteri del telegiornale tagliavano l’aria sovrastante. Trombette da stadio strombazzavano, mentre uomini e donne che erano venuti a New York da ogni paese del mondo cantavano inni americani. Anche Marshall cantava God Bless America e O Beautiful for Spacious Skies e My Country ’Tis of Thee, stretto tra una giovane donna avvolta in un sari e un uomo alto con i dreadlock. Intorno a lui, gli scolari si urtavano l’un l’altro con i loro zainetti, ridacchiando. Cantavano loro e cantavano anche questi uomini d’affari in giacca e cravatta e questa
masnada di giovani donne con i tacchi e le capigliature imponenti e un vecchio con una giacca da paracadutista e un altro tizio e un altro ancora e una donna anziana che era uscita con un girello.

Marshall sentì un’enorme emozione nascergli dentro: era il sollievo per la cattura di bin Laden, naturalmente, ma era anche un improvviso amore incondizionato al calor bianco per il suo paese, che in questo momento sentiva come una passione sincera, assoluta, irremovibile. Non si era mai reso conto di conoscere così bene le parole di tante canzoni patriottiche. Aveva il viso bagnato, fradicio.

“Papà!” Era Victor, soltanto qualche metro più in là. Si dileguò dalla stretta di Joyce e corse ad abbracciare le ginocchia di suo padre. Joyce aveva portato con sé tutti e due i bambini, e tutti e due indossavano la T-shirt “Morte ai terroristi!”. Avevano in mano coni gelato al cioccolato. Sorpresa e imbarazzata, Joyce quasi inciampò; e Marshall quasi allungò una mano per afferrarla al volo. “Ciao”, le disse. Si diedero un’occhiata sfuggente, evitando di guardarsi negli occhi. 
Lei rispose: “Ciao”. 
Victor disse: “Hanno catturato Osama bin Laden”.
“Lo so, tesoro, è meraviglioso.”

Viola gli offrì un po’ del suo gelato. La folla si era dovuta fermare adesso, c’era troppa gente perché qualcuno riuscisse ancora ad avanzare, troppa gente perché Marshall e Joyce potessero separarsi. Lui sentì il corpo di lei contro il suo, riscaldato dai sentimenti della giornata. I newyorkesi occupavano le strade in tutte le direzioni fin dove riusciva a spingersi lo sguardo, volti e corpi che scintillavano per interi isolati come la pelle di un serpente, le foglie di un albero agitate dal vento, i nastri di una telescrivente. I loro canti rimbombavano contro le alte pareti dei viali. Gente che non si conosceva si abbracciava. Altri si davano pacche sulla schiena e strette alle spalle. Qualcuno suonava i bonghi. In lontananza, esplodevano petardi. Marshall diede un morso al gelato. La luce del tardo pomeriggio era dorata, fluida adesso, e si riversava sugli edifici di vetro e pietra disposti intorno al sito, rendendo incandescente ogni superficie. Davanti a lui, la vastità del vuoto di quel buco nella città era infiammata dal rumore e dalle aspirazioni dell’umanità. Una punta di freccia di passeri si alzò da un tetto vicino e si spinse incontrastata nel blu sempre più intenso. Quel momento sarebbe durato per sempre, oppure solo fino a quando tutto quello che conteneva non fosse andato completamente distrutto.

(tratto dal libro “Uno stato particolare di disordine” di Ken Kalfus. Per gentile concessione di Fandango)

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