Splendori e ombre di un governatore di successo

Splendori e ombre di un governatore di successo

Questa mattina un parterre di banchieri, imprenditori e politici ha ascoltato le Considerazioni Finali del governatore della Banca d’Italia, che da tradizione vengono lette il 31 maggio di ogni anno. La prima, singolare caratteristica di questo appuntamento in cui viene dato conto pubblicamente dell’operato dell’autorità italiana di vigilanza bancaria è che si svolge nell’ambito dell’assemblea degli azionisti dell’istituto.

Nonostante le previsioni legislative di sei anni fa, infatti, la Banca d’Italia continua a essere una società per azioni “di diritto pubblico” i cui soci principali sono banche private (vedi elenco). A differenza che in altri ordinamenti, la rendicontazione è rivolta primariamente ai soci e in seconda battuta al Parlamento e al Governo, cui viene trasmessa una relazione.

La tradizione impone anche che i partecipanti al capitale delle banca e gli altri invitati si spertichino in un florilegio di considerazioni entusiastiche e di lodi di circostanza, sottolineando quello che si è voluto sentire. Un rito a metà fra un protocollo non scritto e le acrobazie cui può giungere l’umana piaggeria, che a memoria di chi scrive risale quanto meno ai governi di transizione alla Seconda Repubblica. 

Quest’anno, comunque, l’evento è davvero speciale. Proprio due settimane fa il governatore in carica Mario Draghi è stato designato ufficialmente alla presidenza della Banca centrale europea, un traguardo di carriera che ha acceso un grande orgoglio nella classe dirigente, specialmente fra i banchieri, che sono poi i soggetti sottoposti alla vigilanza dalla Banca d’Italia.

«Un italiano alla guida della Bce!» è stato il ritornello-esclamazione di questi mesi, espresso in Italia con compiacimento patriottico, e all’estero con preoccupazione, specialmente dai tedeschi, attestati su una linea di rigore della politica monetaria. In soldoni, vorrà dire che se l’inflazione media dell’area euro alza troppo la testa (oggi è al 2,8% in Italia al 2,9%), Berlino pretende che la Bce alzi i tassi di interesse ufficiali (oggi all’1,25%), anche se questo potrebbe stroncare la crescita nei paesi in cui è ancora debole. Non si tratta di un capriccio teutonico ma delle regole messe per iscritto nello statuto della Banca centrale europea. Draghi è stato bravissimo a condurre, nel modo che si conviene a un banchiere centrale, la sua campagna, forte di una rete internazionale di amicizie e sostenitori. Alla Bundesbank e all’Esecutivo della cancelliera Angela Merkel sono state date comunque ampie garanzie. 

Dal prossimo autunno all’Eurotower di Francoforte ci sarà dunque un banchiere italiano da cui però ci si aspetta una linea da «tedesco onorario». Per il prossimo presidente della Bce, dunque, l’appuntamento di oggi è l’epilogo trionfale di una tappa professionale iniziata il 29 dicembre 2005, quando, lasciando il vertice mondiale della Goldman Sachs, venne chiamato in Italia a “salvare” l’onore perduto della Banca d’Italia. Con Draghi nuovo governatore, si chiudeva così la stagione di scandali bancari (Antonveneta, Bnl) che travolse il predecessore Antonio Fazio, di recente condannato in primo grado a quattro anni di reclusione per il suo ruolo in quelle vicende, e la reputazione dell’istituzione.  

Ristabilire credibilità e decoro istituzionale è stato perciò il primo obiettivo. Pienamente raggiunto a giudizio di molti osservatori e della grande stampa. Le polemiche del 2005 sono sepolte nel passato, e sotto l’egida di Draghi le mosse della Banca d’Italia incontrano cori unanimi di plauso.

A livello internazionale la sua ascesa è stata consacrata con la nomina a presidente del Financial Stability Board, l’organismo approntato per riscrivere le regole di comportamento della finanza globale dopo la crisi scoppiata nel 2007-2008. Anche qui Draghi ha guidato un lavoro significativo di revisione, anche se è mancata la forza per far sì che “l’indice delle riforme proposte” fosse recepito concretamente nel quadro regolatorio, soprattutto nella parte relativa all’uso massivo e spericolato dei derivati e al corto circuito fra enti regolamentati e quello che viene chiamato shadow banking system, il sistema bancario ombra fatto di hedge fund e special purpose entity. Ha prevalso la potenza lobbistica delle grandi banche internazionali. Avendole conosciute bene dal di dentro, Draghi ha fatto quel che poteva: adelante ma con mucho juicio.

All’interno di Via Nazionale, Draghi ha condotto un lavoro di riorganizzazione poco conosciuto al grande pubblico, con la chiusura di 39 filiali e 1.500 tagli al personale che ha incontrato l’avversione dei sindacati, specialmente per il congelamento degli aumenti salariali. Le tensioni sono sfociate nella proclamazione di uno sciopero ad aprile e nel bis di quattro ore previsto per questa mattina.

Su questi tre aspetti (reputazione, organizzazione dell’istituzione e ruolo internazionale) Draghi si è mosso quindi nel tracciato previsto, anche se la performance non sempre ha battuto le elevate attese. Il governatore ha fatto invece registrato uno scarto molto ampio riguardo alle aspettative politiche di vigilanza strutturale, cioè la configurazione del mercato bancario (numero di imprese, quote di mercato, campo di attività, assetti di controllo) ai fini degli obiettivi di stabilità e dell’efficienza. 

La crisi ha imposto un cambio dell’agenda, ribattono i suoi amici ed estimatori (sono tanti nelle banche italiane ed estere ma anche nel mondo accademico). Dopo “l’estate dei furbetti” e delle maldestre mosse nazionalistiche messe in atto dal predecessore per impedire che due banche, Bnl e Antonveneta, finissero sotto il controllo di gruppi stranieri, Draghi era stato salutato come l’uomo che avrebbe finalmente aperto il mercato bancario italiano a una vera concorrenza, senza ostacolare la penetrazione dei competitori esteri. 

Ora, in effetti, nei primi mesi del 2006 Antonveneta finì in mano all’olandese Abn Amro e Bnl al gruppo francese Bnp Paribas. Ovviamente, questa apertura non è attribuibile a Draghi ma fu semmai imposta dagli eventi: vi era la necessità di sbloccare una partita che si era arenata nelle inchieste e nei sequestri disposti dalla Procura di Milano.

A guardare però a ritroso i cinque anni e mezzo di mandato Draghi non si può non notare come il sistema bancario italiano abbia vissuto una blindatura tutta in chiave nazional-protezionista. L’esatto opposto delle aspettative, e ben prima che la crisi dispiegasse i suoi effetti. L’operazione fra Banca Intesa e il Sanpaolo Imi, una fusione che venne definita a «basso rischio di esecuzione», è dell’agosto 2006, pochi mesi dopo l’insediamento del governo di Romani Prodi, il premier che il quotidiano britannico Telegraph definì un «ex Goldman Sachs man». Definizione a maggior ragione calza per l’allora sottosegretario al Tesoro Massimo Tononi. Unicredit-Capitalia data del maggio 2007, un anno e mezzo dopo l’arrivo dell’ex direttore generale del Tesoro, dove gestì le grandi privatizzazioni degli anni ’90, al vertice della Banca d’Italia.

Era lo stesso mese in cui deflagrava lo scandalo di Italease, un istituto di leasing e credito alle imprese di proprietà delle banche popolari. Socio di controllo la Popolare di Verona di Carlo Fratta Pasini e vicepresidente Fabio Innocenzi, all’epoca amministratore delegato dell’istituto veronese, oggi nel gruppo Intesa Sanpaolo.

Italease aveva accumulato un enorme rischio sui derivati venduti con disinvoltura alla clientela, oltre a un portafoglio crediti di dubbia qualità. E la cosa singolare è che in Via Nazionale si accorsero troppo tardi che nessuno aveva mai autorizzato l’istituto a venderli, mentre (sembra che) a Verona nessuno avesse la più pallida idea di quello che stesse accadendo nella controllata milanese di via Cino Del Duca. Lo scandalo non ha però intaccato la credibilità di Draghi, che anzi ha rafforzato la reputazione di controllore severo, imponendo alle banche popolari di assumersi l’onere del buco lasciato dall’ex amministratore delegato Massimo Faenza e sciogliendo il cda di Italease. 

Sempre a maggio, ma nel 2009, arriva il turno di Delta, gruppo bolognese sotto il controllo della Cassa di risparmio di San Marino, i cui vertici vengono arrestati su richiesta della Procura di Forlì. Riciclaggio di denaro sporco, truffa, fatture false, appropriazione indebita e attività bancaria abusiva è la lista della accuse. Un’ispezione di Bankitalia, conclusa nel febbraio 2009, aveva portato alla sospensione delle autorizzazioni a operare come gruppo bancario: oggettivamente un po’ poco rispetto al commissariamento che viene poi deciso in concomitanza con le mosse della Procura. Qua e là si levano delle perplessità sulla lentezza degli interventi, ma ormai il plauso crescente a Draghi è troppo forte rispetto ai distinguo dei suoi (sempre più esigui) critici. 

Prevalgono su tutto le considerazioni sulla tenuta del sistema bancario italiano rispetto alla crisi. I casi Delta e Italease vengono metabolizzati in fretta. «Nessuna banca italiana è fallita» si ripete, allora come oggi. Si trascura il fatto che il modello di business delle banche italiane era storicamente orientato in misura prevalente a estrarre extra profitti non tanto dalla leva finanziaria ma dalla clientela retail. Un comportamento che ancora oggi è fisiologia del sistema  (come conferma la qualità dei prodotti finanziari rifilati alla clientela e i costi dei servizi di pagamento sopportati dalle imprese), mentre le patologie acute (i crac dei bond argentini, Cirio, Parmalat) sono scomparse.

A margine va comunque annotato che, salvo il caso di Unicredit che ha provveduto da tempo con due ricapitalizzazioni (ottobre 2008 e gennaio 2010), le banche italiane stanno subendo oggi l’onda lunga dello tsunami finanziario del 2007-08. Per non compromettere la stabilità del sistema, Draghi ha dovuto imporre una serie di robusti aumenti di capitale: a gennaio di quest’anno ha cominciato il Banco Popolare (2 miliardi), quello di Intesa Sanpaolo (5 miliardi) è in corso, seguiranno Bpm con 1,2 miliardi, Ubi con un altro miliardo, e Mps (2 miliardi). Dallo scorso ottobre ad aprile fanno 11 miliardi. Una mole che pochi giorni fa, in occasione di un incontro all’Aifi, l’ex ministro del Tesoro Domenico Siniscalco, banchiere della Morgan Stanley e presidente di Assogestioni, ha bollato scherzosamente come «ultra petita», un modo per dire che sono al di là delle reali necessità. Ad ogni modo, si tratta di capitale che da un lato incrementa la stabilità delle banche, sulle quali però gravano anche problemi di efficienza e redditività, e dall’altro assicura un cuscinetto di liquidità spendibile per sostenere il debito pubblico italiano.

A proposito di Mps, la banca senese guidata da Giuseppe Mussari – il presidente dell’Abi che qualche tempo fa, intervistato a Effetto Domino, ha tessuto le lodi di Draghi – gli osservatori più attenti rilevano che l’autorizzazione a comprare Antonveneta per 9 miliardi di euro, rilasciata al Montepaschi a fine 2007, e quindi a crisi già scoppiata, si è rivelata «assai poco lungimirante». Con l’aggravarsi della crisi, per l’istituto è stato necessario predisporre un incremento del patrimonio.

Comunque, persino il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, l’acerrimo nemico di un tempo, non rincorre più la polemica, salvo qualche battuta che lascia il tempo che trova. E comunque, a due mesi dal ritorno al governo, Tremonti inserisce nel decreto anti-crisi (luglio 2008) una norma fiscale che consente alle banche di smaltire la sbornia delle acquisizioni, permettendo di ammortizzare a condizioni vantaggiose l’avviamento accumulato.

Fra i meriti di Draghi, suggerisce Franco Bruni, professore di Politica monetaria nell’Università Bocconi di Milano e incrollabile estimatore del governatore, «c’è la capacità di relazionarsi al governo Berlusconi con misura, critico quando doveva essere critico, e di avere saputo stabilire con Tremonti un rapporto che all’inizio sembrava di tensione o di competizione, ma che poi è finita meglio». E Tremonti, dopo tanti “ni”, ha dato il suo apporto alla candidatura di Draghi alla Bce. L’asse fra ministro e governatore, viene fatto notare, ha funzionato «meglio che altrove» nel recepimento nazionale delle indicazioni date dal Financial Stability Board, soprattutto in tema di remunerazione dei banchieri. 

Sulla gestione del risparmio delle famiglie, infine, l’opera di Draghi resta un’incompiuta. La struttura del mercato, con le società di gestione in mano alle grandi banche e l’assenza di concorrenza dentro le reti di distribuzione, non è granché cambiata. Le sollecitazioni che il governatore, sin dalla sua prima partecipazione al congresso Assiom-Forex di Cagliari (marzo 2006), aveva rivolto ai banchieri, sono rimaste solo dei buoni propositi. 

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