La prima cosa che deve fare la comunità cristiana è comprendere che cosa vuol dire che Gesù se n’è andato. Questo “andarsene” è un nuovo modo della sua presenza: quella della fede in Lui.
V Domenica di Pasqua
Giovanni 14, 1–12 (leggi qui il testo integrale)
È un brano di alta contemplazione dove la spiegazione rischia di essere banale, perché sono tutte parole immediatamente comprensibili, anche se ci si accorge che hanno un’infinità di significati sempre più profondi e sempre più elementari.
«Non sia turbato il vostro cuore; continuate a credere in Dio e pure in me continuate a credere».
Queste parole sono il motivo dominante. Non sia turbato il vostro cuore ritorna alla fine del capitolo quando Gesù dice: «Non sia turbato il vostro cuore e non spaventatevi». Richiamano le parole di Mosè quando ormai se ne va e dice al popolo: «State tranquilli, non abbiate paura, vedrete, abbiate fede in Dio».
È un discorso di addio, un testamento, dove si cerca di affidare a Dio – “ad-dio” – la gente che rimane, comprendendo che l’importante non è che sia presente Mosè o Gesù, l’importante è qualcosa d’altro: è la fede che ha fatto camminare Mosè e Gesù, che rimane la nostra eredità e ci rende appunto come loro.
La prima eredità di Gesù è di non turbarci. Davanti al sepolcro di Lazzaro, davanti a Giuda, davanti alla propria morte, Gesù ha superato il turbamento soltanto con la fiducia nel Padre. Il turbamento viene allora a essere un’occasione per la crescita nella fiducia e nel coraggio, oppure diventa il luogo della caduta.
Nel nostro cuore ci sono insieme paura e fiducia. C’è sempre la paura: se uno non ha paura e non è turbato, è un incosciente. L’unico antidoto, l’unico ansiolitico efficace, è la fede, così come la sfiducia è il miglior ansiogeno che ci sia. La fede in Dio: quella fede che fa sì che affidi anche la vita, continuando a credere anche davanti agli sconvolgimenti.
«Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto che vado a prepararvi un luogo? E quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, di nuovo vengo e vi riceverò presso di me, perché dove sono io siate anche voi»
In precedenza, Gesù aveva chiamato casa del Padre il tempio («Avete fatto della casa del Padre mio una spelonca di ladri»). Aveva detto anche: «Distruggete questo tempio ed io lo riedificherò in tre giorni», e qui parlava del suo corpo. Cioè la casa del Padre è il Figlio, il suo corpo. Dove abita il Padre? Dice in questo brano: «Il Padre è in me», perché uno abita dove è amato.
Il Padre abita pienamente nel Figlio che lo accoglie, come il Figlio abita pienamente nel Padre. Gesù che si affida totalmente al Padre e che ci ama come il Padre, svela che presso il Padre c’è per noi una dimora eterna. Quindi il primo senso della morte di Gesù è il ritorno alla casa del Padre. Mentre tutta la nostra vita è una fuga, Gesù dice: «No, state tranquilli, torniamo a casa».
L’eredità che Gesù ci lascia andandosene è il suo Spirito e lo Spirito è la vita, la vita e l’amore che lui ha per il Padre, che il Padre ha per lui e che è lo stesso amore che il Padre ha per ciascuno di noi. Possiamo vivere questo amore del Padre nella nostra vita concreta amando i fratelli: quella è la nuova presenza di Dio in mezzo a noi. Poi conclude: «Dove io me ne vado, voi conoscete la via»: qual è la via? È la via dell’amore compiuto, è la via del lavare i piedi, è la via del boccone dato a Giuda, è la via del dono e del perdono, la via che ci riconduce alla casa del Padre.
«e dove (io) me ne vado, sapete la via». Gli disse Tommaso: «Signore non sappiamo dove te ne vai, come possiamo conoscere la via?»
Però proprio Tommaso arriverà a quella fede alla quale non è arrivato nessuno degli apostoli, neanche la Maddalena. Arriverà a dire: «Signore mio, e Dio mio». Sarà quello che mette la mano dentro il costato e tocca i segni fondamentali dell’amore di Dio. È proprio in questa comunione con il costato di Cristo sarà il gemello di Gesù, il testimone dell’amore.
Nel Cenacolo di Leonardo, Tommaso è segnato con il dito in alto verso il cielo, perché quel dito ha toccato davvero il cielo, ha toccato l’amore concreto di Dio che dà la vita per lui. Nel Vangelo di Giovanni, Tommaso rappresenta il passaggio dall’incredulità alla fede come esperienza d’amore.
Gli rispose Gesù: «Io-Sono la via, la verità, la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, anche il Padre mio conoscerete e da ora lo conoscete e l’avete visto».
La risposta di Gesù a Tommaso è “Io-Sono”, è il nome di Dio con il quale si è rivelato ed è il modo con il quale Gesù parla di sé. Innanzi tutto: Io-Sono la via. In genere la via ha sempre un riferimento con la casa: stai andando via da casa o tornando verso casa. Tutta l’esistenza terrena di Gesù è un cammino di ritorno al Padre: quindi lui è la via. Nella tradizione ebraica la via è la legge che dà il via alla vita. Non tanto una via da seguire (sì anche quella) quanto soprattutto una via che conduce, una via attiva che porta al Padre.
Poi aggiunge: Io-Sono la verità. Lui è la via perché è la verità. Quando si parla di verità in Giovanni, non si vuol dire semplicemente una verità scientifica; si vuol dire un’altra cosa. La verità fondamentale dell’uomo, quella verità che nessuna persona mai accetta, qual è? La verità è che Dio è Padre e noi siamo figli. Chi non accetta il Padre non accetta se stesso. E non si accetta il Padre perché pensa che il Padre sia il concorrente. Gesù ci ha rivelato il Padre come amore e libertà e dono assoluto al Figlio: questa è la verità. L’altra verità è che il “padre della menzogna”, satana, ci ha dipinto un Padre diverso e ci ha fatto fuggire da lui.
Gli dice Filippo: «Signore mostraci il Padre e ci basta». Gli dice Gesù: «Da così tanto tempo sono con voi e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre! Come puoi tu dire: Mostraci il Padre?»
Filippo ha capito che il problema fondamentale di ogni uomo è capire il Padre.
Il Padre è la tua origine, quindi la tua natura. Il desiderio di vedere il Padre richiama il desiderio di Mosè: “Mostrami il tuo volto”. Tutta la vita è ricerca di questo volto. Il desiderio di vedere Dio è il desiderio fondamentale dell’uomo di conoscere se stesso, di vedere la pienezza della propria vita. L’uomo cerca sempre di conoscere l’inconoscibile, perché è della natura dell’inconoscibile e fino a quando non lo trova non è soddisfatto. Ed è questo il motore dell’umanità, della cultura, della ricerca.
La risposta a Filippo sa di ironia, come se dicesse: “sono venuto apposta per far vedere il Volto del Padre, tutta la mia vita è stata una rivelazione del volto del Padre, non l’hai ancora visto?”. Cioè: Filippo domanda a Gesù quel che Gesù ha sempre fatto. È buffo: le cose fondamentali le abbiamo davanti, ma non è detto che le comprendiamo.
Gesù dice: “Chi ha visto me, ha visto il Padre”. È il compendio di tutto il Vangelo questa affermazione. L’uomo Gesù è la rivelazione piena di Dio. Perché non l’hanno visto? Perché si aspettavano un altro Dio. È come stare insieme ad una persona e non conoscerla: capita spessissimo.
Tante volte c’è una conoscenza superficiale che non arriva alla conoscenza profonda. Ciò che Gesù ha fatto sono dei “segni”. Sono cose utili i segni: se voi entrate in Milano trovate più cartelli con su scritto “centro città”. Ma uno che sta lì a guardare quel segno non vedrà mai il centro città. Quando leggiamo il Vangelo, o quando stiamo con le persone, più o meno leggiamo il segno senza capire il significato, il mistero che c’è dietro, che esige il coinvolgimento, l’impegno, l’andarci di persona.
«Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io dico a voi, non le dico da me stesso, ma il Padre che dimora in me fa le sue opere».
Gesù ha ripetuto che il Padre ama il Figlio e che il Figlio ama il Padre. Questo amore fa sì che una persona diventi dimora dell’altra. Il Padre dove sta? Sta nel Figlio perché ama il Figlio. E allora credere che Gesù è il Figlio che ama il Padre che è amato dal Figlio, è la prima cosa che Gesù ha rivelato di se stesso, ma anche di noi. Credere vuol dire fondare la vita su questo amore.
Se ho fatto questo, ho capito la prima cosa del Padre e del Figlio. La seconda è che le parole del Figlio sono le stesse parole del Padre, anzi il Figlio è la Parola del Padre, anzi il Padre è la Parola detta al Figlio. Qual’è l’opera del Padre? Le parole che dice il Figlio, sono parole efficaci, sono parole di amore: sono parole che lo fanno Figlio.
«Continuate a credere a me: Io (sono) nel Padre e il Padre (è) in me. Se no, credete a causa delle opere stesse».
«Credete in me» vuol dire: fondate la vostra esistenza, abbiate fiducia in me. Qui dice: «Credete a me». Non solo devo credere in lui, ma che lui è nel Padre e il Padre in lui. Credere a questa parola vuol dire aver fatto l’esperienza dell’amore. Io abito nel Figlio perché lo amo, e in me abita il Padre perché mi ama, e anch’io abito nel Padre e lì ho trovato il mio luogo, ho trovato il senso della mia vita. Il credere, poi, diventa un’opera, perché uno opera secondo ciò che crede.
«Amen, amen vi dico: chi crede in me, anche lui farà le opere che io faccio e ne farà di più grandi, perché io vado presso il Padre».
Gesù spiega che il principio del nostro fare è la fiducia in lui. Innanzi tutto perché se uno non ha fiducia non fa niente, turbamento e paura ne bloccano le facoltà. Quindi la fiducia sblocca le nostre possibilità. Ma non è soltanto una fiducia generica che ho in lui: la mia fede è conoscere ciò che lui ha fatto, ciò che lui ha detto. E allora faccio anch’io le sue opere, perché uno diventa la parola che ascolta.
Poi Gesù dice: «Non solo farete le mie opere, ma anche di più grandi». Noi abbiamo fatto tante cose che lui neanche si sognava di fare, questo è vero, ma non intende questo. Ciascuno di noi avrà la possibilità di fare l’opera più grande che esista: amare il Padre e amare i fratelli con lo stesso amore di Dio.
*biblista e scrittore
Il testo è una sintesi redazionale della lectio divina tenuta nella Chiesa di San Fedele in Milano nel corso di vari anni. L’audio originale può essere ascoltato qui.
Il quadro in alto: Nicola Magrin, «In cammino», 2011, acquerello su carta Arches, 38×28,5 cm – Galleria Blanchaert – Milano