Dàgli alla Popolare. È il gioco che oggi va per la maggiore a Piazza Affari. Ma anche nel dibattito pubblico le Popolari sono sempre meno popolari. Si parla di innalzare il tetto al possesso azionario, dall’attuale 0,5 per cento. Soprattutto, si chiede – lo ha fatto con una certa insistenza la Banca d’Italia nel caso della Bpm – di aumentare il numero di deleghe di voto che un socio può esercitare in rappresentanza di altri. In un istituto di natura cooperativa, quale è una banca popolare, dove si vota per testa e non per quote di capitale, è una questione con molteplici implicazioni sia sugli assetti di potere sia sulla natura dell’istituzione. Un punto fermo, sabato scorso, è stato messo dall’assemblea della Bpm, che, con il voto compatto dei dipendenti, ha rigettato la proposta di incremento delle deleghe da tre a cinque, dopo che ad aprile erano state aumentate da due a tre. Ma nell’orizzonte dell’istituto milanese c’è un aumento di capitale da 1,2 miliardi, più del doppio della capitalizzazione di Borsa. Intanto, in Parlamento, dopo un lungo letargo, sembra stia riprendendo velocità l’iter della riforma legislativa.
«L’aumento eccessivo delle deleghe snatura la banca cooperativa». Giulio Sapelli, 64 anni, professore ordinario di Storia economica nell’Università statale di Milano, non ci gira troppo intorno. Da studioso di lungo corso del mondo della cooperazione, per prima cosa ci tiene a demistificare i due più frequenti equivoci in cui, secondo lui, incorrono i commentatori. E a ricordare che il declino della Pmi in Inghilterra, da cui emerge che la distruzione dei distretti lanieri e setaioli dello Yorkshire è legato alla scomparsa delle Popolari, «mentre questo in Italia non è successo», e le Pmi sono ancora l’asse portante della struttura industriale nazionale.
Professore, di che cosa parliamo quando parliamo di Popolari?
«Quando si parla di cooperative, la storia come la teoria di queste istituzioni dicono chiaramente che sono società di persone e non di capitali. La cosa che gli attuali commentatori ignorano è che fra i principali sostenitori della cooperazione ci sono stati Max Weber, che teorizza la società economica a proprietà collettiva di piccolo gruppo, e la contrappone alla proprietà statale sia alla proprietà privata, e poi soprattuto di Alfred Marshall, che nei sui “Principi di economia” dedica un un centinaio di pagine dedicate alle cooperative. L’uno e l’altro definiscono le cooperative come società di persone. Quindi lo stupore di quelli che dicono “ah ma ci sono 57mila soci che hanno il 27% del capitale”, per citare il caso Bpm, è fuori luogo. Ma di che cosa si stupiscono? È la normalità di una società di credito cooperativo a mutualità prevalente e quindi a porta aperta, ossia in cui il credito non si eroga soltanto ai soci».
Nel caso della Bpm non è visto di buon occhio il ruolo dei dipendenti, però.
Altra seconda cosa che si dimentica è che le Popolari sono fra loro assai diverse. Vi sono alcune che vietano ai dipendenti di essere soci. Altre impongono che per diventare dipendenti bisogna prima diventare soci. Lo sottolineo, dopo anni in cui tutti si sono sciacquati la bocca con la retorica della sussidiarietà, perché è molto difficile pensare di irrigidire storie molto diverse quali sono quelle delle banche popolari. E di questo va necessariamente tenuto conto qualora si arrivasse a una riforma legislativa.
Per Bpm, però, viene spesso criticato – e per tanti versi a ragione – il peso dei dipendenti nel governo della cooperativa.
La Bpm è una singolare questione perché i dipendenti sono venuti ad assumere un peso superiore a quello che accade in altre società, e questo è accaduto un po’ per lascito del riformismo socialista e cattolico, un po’ per il ruolo che i dipendenti ebbero da subito. Questa diversità si è accentuata nel dopoguerra per via della diffusività dell’affiliazione sindacale.
Questa vicinanza ha prodotto però condizioni contrattuali migliori di quelle che hanno i lavoratori delle banche-spa, con il risultato, viene evidenziato da molti, di ridurre l’efficienza.
Bisogna premettere che il compito istituzionale di una cooperativa non è di produrre utili ma di consentire l’acquisizione di beni (nel caso specifico, credito e strumenti di impiego del risparmio) a condizioni migliori di quelle che potrebbero essere ottenute sul mercato in forma individualistica. Detto questo, la convinzione a cui si fa riferimento è molto discutibile, e da un punto di vista storico sbagliata. Esistono libri di storia e statistiche che lo provano. Se uno ripensa a quello che erano condizioni nelle banche capitalistiche, fino a qualche tempo fa, quando un dipendente di una banca commerciale arrivava ad avere 16 mensilità, non c’è confronto che tenga. Decisamente, è una fantasia. Ciò che conta nella cooperativa bancaria non è l’utile ma possibilità di dare credito agli ultimi, alle famiglie, alle Pmi, e la conservazione dell’occupazione.
Rispetto allo straordinario impulso sociale dato nell’Ottocento e per gran parte del secolo scorso, svolgendo un ruolo centrale nella lotta all’usura, oggi le Popolari abbiano smarrito la loro missione?
No. Ancora oggi restano ancorate al credito ordinario e tutte continuano a fare margini con i prestiti a imprese e famiglie. Nessuna, salvo una, è caduta in operazioni sui derivati, tutte sono rimaste indenni da quelle grandi speculazioni che ha favorito i guadagni delle banche di capitale. Per queste ragioni, sono contrarissimo al fatto che i requisiti di Basiliea 3 si applichino allo stesso modo a banche capitalistiche e a banche popolari e alle Bcc. I livelli di capitalizzazione che si chiede alla banche attuali non dovrebbe valere per le popolari, che sono rimaste banche a basso rischio.
Invece non è prevista alcuna differenziazione. Né fra le banche commerciali e le banche d’investimento né fra piccole popolari e grandi banche di rilevanza sistemica.
In questo la Banca d’Italia, come anche il Comitato di Basilea, sbaglia profondamente perché fa osservazioni giuste su compliance, Mifid, crediti, ma ancora una volta dimostra di non avere mai capito la natura non capitalistica delle banche popolari. La Banca d’Italia ha in mente che tutte le banche devono essere società per azioni, e invece grazie a Dio ci sono banche che non lo sono. Il problema è che siamo nel dominio dell’alta finanza, il predominio del mondo delle grandi banche d’affari ha fatto sì che un rullo compressore stia distruggendo tutte le forme di proprietà “altre”.
In mondo in cui i banchieri centrali provengono dagli alti ranghi delle banche d’affari, lei si stupisce?
Fino a Guido Carli, i banchieri centrali si erano formati in un contesto culturale internazionale che non escludeva che ci potessero essere forme di proprietà diverse dalla proprietà privata pura, ossia, per utilizzare la denominazione che ne diede Max Weber, la proprietà collettiva di piccoli gruppi, un modo per dire che è collettiva ma non collettivistica, non tipo statale ma associativa. Baffi, Menichella, Carli si erano tutti formati in un mondo dove l’economia mista aveva una piena legittimità. Oggi è tutto cambiato: tutti sono fanatici neoclassici e non concepiscono altra forma di allocazione dei diritti di proprietà che non sia capitalistica, a partire, ahimè, dalle banche.Tutto questo finirà per favorire le grandi banche d’affari che vanno alla conquista degli asset italiani, la campagna d’Italia è già in atto.
È in atto dai primi anni ’90.
Quello che non capiscono, i sostenitori neoliberisti del mercato dispiegato a tutto campo, è che il mercato funziona bene se al suo interno ha diverse forme di diritti di proprietà. Lo dice anche la Chiesa, il cui pensiero è oggi l’ultimo baluardo a difesa di forme di proprietà altre da quelle fondate sul mero capitale, e della libertà dei privati di associarsi e di scambiare beni e servizi nelle forme in cui credono. La grande finanza vuole ridurre tutto a liquidità, a capitale. Ma questa ingerenza sulle modalità associative, anche attraverso legislazione e interventi dei regolatori, diventa una nuova forma di statolatria e di totalitarismo culturale che ha già fatto molti danni. Non ultimo la grandi crisi finanziaria scoppiata tre anni fa.
L’orientamento dell’autorità di vigilanza va però in senso contrario a quello che lei sostiene. Al termine dell’ispezione che ha rilevato una serie di criticità organizzative (con giudizio “parzialmente sfavorevole”), il governatore Draghi ha stabilito discrezionalmente che la Bpm dovesse avere «dei fattori di ponderazione particolarmente prudenziali», da cui l’aumento di capitale da 1,2 miliardi. Cioè, Bankitalia ha chiesto a Bpm di avere un capitale proporzionalmente superiore a quello delle banche ben più grandi e di impatto sistemico.
Se è così, ha fatto un grave errore…Mi permetto sommessamente di dirlo con convinzione. Ma come, di fronte alle stragi degli innocenti che abbiamo visto in questi anni e che sono state perpetrate dalle banche capitalistiche, che senso ha accanirsi con le Popolari? mi pare che proporzionalmente ci sia acceso un faro esagerato sulle Popolari.
Anche le Popolari hanno avuto i loro guai e scandali, specialmente nei crediti.
Per non sbagliare, nell’erogazione del credito le Popolari dovrebbero attenersi ai sacri principi enunciati da Luzzati e privilegiare quelle che don Luigi Sturzo chiamava le mezze maniche: artigiani, piccoli imprenditori, giovani che vogliono fondare imprese, inventori, famiglie povere.
Una sorta di microcredito in un contesto economico evoluto.
Fare credito come hanno fatto sempre, sostenendo la piccola e media impresa. Senza di loro, chi avrebbe finanziato artigiani e Pmi? Sono state fatte ricerche sul declino della Pmi in Inghilterra, i distretti lanieri e setaioli dello Yorkshire sono stati distrutti dal fatto che le Popolari sono scomparse, mentre questo in Italia non è successo. Il microcredito è una scoperta recente ma è la scoperta dell’acqua calda, perché le Popolari lo hanno sempre fatto. Poi va detto che, come tutte le imprese, anche le Popolari non sono perfette.
Forse quando c’è di mezzo un potente ci si illude di poterne trarre chissà quali vantaggi, la tentazione è forte. Alla fine Bpm ha fatto credito a Ligresti e Caltagirone, per non parlare di tutti gli altri, dal Banco Popolare a Ubi a Bper.
Bisognerebbe ricordarsi che in assemblea non ci va Ligresti ma ci vanno le mezze maniche, e perciò i dirigenti bancari cooperativi dovrebbero usare questo criterio: pensare sempre che la stella polare non è il potere che acquisto dando credito ai potenti ma l’aiuto che do alla società civile. Avrò margini inferiori se faccio mille erogazioni piccole anziché una grande, ma ho un rischio polverizzato, diffuso, non concentrato.
È un richiamo a fare il proprio mestiere senza sconfinare nei campi che sono propri di altre istituzioni creditizie.
Io non critico nessuno ma se sono un dirigente di una Popolare devo comportarmi in questo modo. La banca popolare o la Bcc è il terreno ideale per mettere assieme economia e morale e se non tengo assieme questi due termini, se mi comporto come le altre banche, non si capisce che cosa ci stia a fare il credito cooperativo. Dopodiché c’è il caso Ligresti, c’è Italaese, ci sono altre situazioni, ma siamo davanti a casi che possiamo contare sulla punta di una mano.
Una volta, quando era presidente fresco di nomina, Roberto Mazzotta disse che il pregiudizio verso il ruolo dei dipendenti in Bpm, che delinea una sorta di cogestione all’italiana, aveva un che di «schifosamente classista». Poi, l’idillio si è rotto e di acqua sotto i ponti ne è passata.
Ma dove risiede questo grande scandalo? Non è che i dipendenti comandino perché c’è una legge o una disposizione statutaria a loro favore, ma perché loro vanno in assemblea, e fanno maggioranza. Se guardi i voti, quella roba lì delle deleghe è stata vinta con uno scarto di meno di 400 voti, 2000 circa contro 1700. È stato uno scontro salutare, in cui sono risultati vincenti i dipendenti: che se ne prenda atto. Questa è la democrazia cooperativa, che non va fatta con sistemi paramilitari o imposta per legge, ma costruita con il consenso. Anche il Parlamento ne deve tenere conto: sarebbe deleterio procedere per imposizioni legislative. A loro volta, i soci di minoranza possono organizzarsi, senza bisogno di mettersi a caccia di deleghe, e provare a farsi spazio. La cosa grave è che la divisione passi fra dipendenti e non dipendenti.
Rappresentano interessi contrapposti.
La buona governance non va impostata dipendenti contro non dipendenti, ma deve passare su dei progetti, dove dipendenti e non dipendenti si confrontano e si mischiano: è questo che deve proporsi la Bpm, superando questa divisione. Quando avremo assemblee in cui i soci votano su dei progetti, vorrà dire che la governance è diventata normale. Quello che governa le banche popolari è il consenso, che non si costruisce in assemblea ma comincia dalla fine dell’assemblea, con la scelta di una politica di banca giusta e buona, e finisce con la convocazione dell’altra assemblea.
Con l’aumento delle deleghe si cerca di incentivare la partecipazione alle assemblee.
Partecipare costa energia e fatica, l’assemblea è, di media, una volta l’anno, ma secondo la teoria cooperativa dovrebbero esserci riunioni più frequenti, anche mensili, fra i soci, che quindi dovrebbero andare spesso agli incontri. Questa “fatica” spinge a disinteressarsi.
Così, un po’ ovunque nelle Popolari, i dirigenti diventano inamovibili. Anche se ci sono e ci sono stati anche nelle banche-spa esempi di presidenti immarcescibili.
Il fenomeno è tipico dei rischi di una democrazia cooperativa, quando eleggi i tuoi dirigenti li eleggi non perché sono portatori o rappresentati di quote azionarie. Li dovresti scegliere o per criterio meritocratico o comunque per accordo fra soci. Questi dirigenti hanno un credito, carisma più alto di quelle delle imprese capitalistiche, ma questo è anche terreno per uno dei possibili mali, per la degenerazione oligarchica. In un mondo come quello bancario dove vigono asimmetrie informative elevatissime, io che faccio formaggi nel lodigiano e sono socio di Bpm o di una qualunque altra Popolare, che cosa vuoi che ne sappia di tier1? Se andiamo a vedere la permanenza media dei presidenti di cooperative in tutto il mondo, è sempre superiore ai 15-20 anni. È per questo che va premiato il ruolo e lo sforzo continuo dell’Associazione nazionale Banche Popolari per diffondere tra i soci e tutti i clienti la cultura finanziaria e cooperativa.
In fondo, dopo la lunga presidenza Schlesinger, la Bpm è un raro esempio di avvicendamento dei presidenti…
…. non mi chieda di pronunciarmi su questo punto.
Ma con le deleghe come la mettiamo? L’idea è di imporre per legge un minimo di cinque e un massimo di dieci deleghe per socio.
La questione delle deleghe è delicatissima, perché il voto capitario è connaturato alla cooperazione. Se si esagera con le deleghe si rischia di snaturarlo. Del resto, non si può non notare che da anni c’è un tentativo per trasformare le Popolari in spa, scalarle e prenderne il controllo, e soprattutto appropriarsi della loro capacità di far provvista sulla rete. Non dimentichiamoci che con la crisi il tema di dotarsi di una autonoma capacità di approvviggionamento della liquidità è diventato fondamentale. Negli ultimi anni abbiamo visto come persino il santuario di Mediobanca si è inventata CheBanca, una banca diretta, per rastrellare provvista, cosa che, se uno ci pensa, avrà fatto trasalire la salma di Cuccia. Se passa il tentativo, un pezzo di credito che finora, grazie a Dio, è andato all’economia reale e alle famiglie finirà nella centrifuga della finanza per la finanza.
Qual è il suo consiglio, in definitiva?
Penso che la cosa perfetta sarebbero tre deleghe e che si può giungere, in ogni caso a stabilire un tetto massimo di cinque deleghe: oltre diventa pericoloso, perché si presterebbe a manovre spericolate di politici, affaristi. Al Sud, poi, vorrebbe dire dare una mano ad aumentare la penetrazione delle criminalità nelle banche. Soprattutto vorrei dire alla Banca d’Italia: occupatevi delle questioni del credito, dei presidi sui rischi, ma lasciate la governance cooperativa ai soci, al principio di sussidiarietà.