Negli anni Novanta, Buthayna Kamel conduceva un programma radiofonico dal nome “Eterafat al-Leyali”, confessioni notturne, dove gli egiziani chiamavano in diretta per discutere liberamente delle aggressioni e intimidazioni da parte degli uomini di Hosni Mubarak ma anche di infedeltà coniugali, di sesso, omosessualità, corruzione e di violenze domestiche. Proprio come succede ai protagonisti del Palazzo Yacoubian dello scrittore egiziano Ala Al-Aswani.
Sei anni dopo, nel 1998, il programma fu bruscamente chiuso dal comitato governativo sulla religione perché ritenuto lesivo dell’immagine dell’Egitto e un cattivo esempio per i giovani. Nonostante fosse il più seguito in Egitto, Buthayna perde il suo lavoro ma non si lascia abbattere e qualche anno dopo viene assunta a Orbit Network, una televisione satellitare di proprietà saudita. Per loro condurrà una trasmissione di nome “Please understand me”, per favore comprendetemi, in cui intervisterà politici, intellettuali e artisti egiziani diventando la giornalista più conosciuta del Paese.
La sua carriera però subisce un’altra brusca frenata: durante i giorni della rivolta del 25 gennaio scorso, che hanno portato alla caduta di Mubarak, Buthayna decide di lavorare a un’inchiesta sul tesoro nascosto dell’ex raìs egiziano. Inutile dire che dagli alti piani della stazione televisiva giunge un perentorio e immediato divieto alla messa in onda. Stop alle trasmissioni, così fu sentenziato.
E così è stato per Buthayna, che decide di giocare duro e scende in politica, in quell’arena fino ad oggi occupata solo da uomini. Nell’Egitto del post-Mubarak, in cui regnano ancora opacità e poca trasparenza politica, il nome di Buthayna Kamel sarà sulle schede elettorali delle prossime elezioni presidenziali programmate per settembre: è la prima volta nella storia del Paese che una donna si candida a diventare Presidente.
Buthayna ha lanciato la candidatura ad aprile dal suo account Twitter, provocando un piccolo terremoto: curiosi e appassionati hanno cominciato a seguire la sua campagna e le visite nelle zone difficili del Paese, quelli in cui abitano copti, nubiani e berberi. Nel giro di pochi giorni la sua storia ha smosso l’interesse anche di persone che con l’Egitto hanno poco a che fare. Il New York Times racconta che in un pomeriggio di qualche settimane fa, al Marriott Hotel del Cairo, la Kamel si sia incontrata con Andrew S. Karsh, un nome che a qualcuno non evoca nulla ma che, per alcuni aspetti, è stato centrale nella campagna di Barack Obama del 2008: sua fu l’idea di mettere in piedi l’organizzazione Rock the Vote per incentivare i giovani americani, per tradizione pigri e svogliati di fronti ai seggi, ad andare a votare per il candidato afro americano. Sua anche l’idea di allestire un tour simile a quello di Obama per la signora Kamel, “un campaign bus costruito da designer egiziani che sia una celebrazioni di tutte le culture del Paese”, viene riportato dal quotidiano newyorchese.
I due avrebbero discusso un piano per i prossimi mesi, considerando che la Kamel si candida come indipendente (il suo punto debole è infatti proprio l’organizzazione) e ha parecchi nemici soprattutto tra i militari che oggi governano il Paese. Il 14 maggio è stata interrogata dal Generale Ismail Etman, capo del Comitato per gli affari morali del Consiglio superiore delle forze armate egiziane, perché aveva denunciato – attraverso Twitter – gli abusi, gli arresti indiscriminati e i testi sulla verginità messi in atto dai militari nei confronti dei manifestanti. Quel giorno Buthayna ne è uscita pulita, senza alcuna accusa, ma è stata messa in guardia.
Vera stacanovista (così l’hanno descritta alcuni colleghi intervistati dalla Reuters), la quarantanovenne di religione musulmana ha le idee chiare e ha già presentato la sua piattaforma politica. Il suo motto è My agenda is Egypt, la mia agenda è l’Egitto, si presenta come rappresentante non solo delle donne ma anche dei contadini, degli operai, dei giovani, dei copti, dei nubiani e dei beduini. «Quando mi trovo a protestare con i cristiani, sto combattendo per l’Egitto e con i ribelli del 25 gennaio» ha detto in un incontro cittadino a Fayoum a sud del Cairo. «Con me porto la luna crescente e la croce. Essere copti significa essere egiziani. Noi siamo un popolo solo. E io voglio combattere per i diritti di tutti gli egiziani».
Se la sua retorica riscalda alcuni cuori, lascia però indifferenti molti altri. Duramente attaccata dalla celebre cantate egiziana Angham, che ha dichiarato che la sua candidatura «è solo una provocazione», l’ex giornalista ha risposto denunciando la mancata presenza dell’artista durante i festeggiamenti in piazza Tahrir al momento della caduta di Mubarak. «La mia candidatura svela al mondo un nuovo volto dell’Egitto – ha detto – quello di un Paese civilizzato che permette alle donne di lavorare in politica. E anche se perderò, le mie richieste contro la corruzione e a favore di una maggiore integrazione delle minoranze dovranno in qualche modo essere ascoltate».