L’avevamo lasciato nel suo quartier generale, da dove si levava una colonna di fumo. Il colonnello Gheddafi, sempre bersagliato dalle bombe Nato, è ancora lì. Ma sembra più vicino alla sua vittoria, che è, per lui, il compromesso. L’attacco di terra da parte dei ribelli è fiacco. L’avanzata verso Tripoli, dopo Brega, è rallentata, anche se è di ieri la notizia della presa di un oleodotto che, dalla città di Zintan, sulla zona montuosa della Tripolitania, arriva fino a al-Zawaiyah, a ovest di Tripoli. Una delle poche fonti di carburante ancora nelle mani di Gheddafi.
Dal cielo, intanto, le bombe colpiscono edifici, ma anche civili. È accaduto lunedì mattina, vicino a Sorman, dalle parti di Tripoli, dove un palazzo è stato raso al suolo, provocando 15 vittime, tra le quali alcuni bambini. Allo stesso modo, domenica, quando una bomba ha raggiunto un quartiere residenziale della capitale. In un comunicato, la Nato ribadisce che quello di lunedì era un obiettivo strategico, e si dice «dispiaciuta per le vittime», atteggiamento che, aggiunge, «è in netto contrasto con il comportamento del regime, che invece è violento nei confronti della popolazione libica». Secondo Gheddafi, però, le vittime provocate dai bombardamenti della Nato, sono più di 700.
Insomma, «è una fase di stallo», come spiega a Linkiesta Pietro Batacchi, del Centro Studi internazionali ed esperto di questioni militari «La Nato ha puntato tutto su un tipo di “diplomazia coercitiva”: si colpiscono obiettivi dal contenuto strategico, legati alla leadership», continua. Cioè si cerca di colpire Gheddafi, e di costringerlo alla resa. Il problema è che funzionano poco: «Di sicuro sono inficiati dall’assenza degli americani», sottolinea Batacchi. Gli Usa si limitano a un supporto esterno: studiano le immagini dei satelliti e forniscono carburante. I risultati scarseggiano, «ma si andrà avanti così, finché non si raggiungerà l’obiettivo».
Anche se a favore di Gheddafi lavorano il tempo e i bilanci degli Stati coinvolti, che «sono appesantiti in modo insostenibile dalle spese militari». L’Italia, finora, ha versato 150 milioni. La Francia, 87. In un periodo di crisi, continua Batacchi, «il costo diventa più serio, e qualche stato potrebbe pensare di sfilarsi dalla coalizione». L’Italia, in questo senso, sembra tentata. Il rischio «è che la guerra finisca con un compromesso: la divisione della Libia in due parti. Una nelle mani dei ribelli, e una ancora sotto Gheddafi». Una guerra che sarebbe persa «o meglio, non vinta», precisa.
Il malumore, però, serpeggia. Alcuni ex militari sono critici: «Il compromesso sembra la soluzione finale», spiegano, restando anonimi, a Linkiesta. Una vittoria di nessuno. Il copione ha visto «una mossa avventata e incomprensibile» di Francia e Gran Bretagna, poi un impegno militare «poco organizzato e male gestito» e di conseguenza poco incisivo, e un defilarsi da parte degli Stati Uniti «che hanno lasciato la patata bollente nelle mani della Nato».
Si va in guerra controvoglia: non c’è volontà corale, né univoca, soprattutto in Italia. «Il problema», precisano, «non è solo economico: in Afghanistan si spende di più. Si è capito che l’interventismo a ogni costo non è più pagante». Sembra proprio così. In ogni caso, il conflitto non può durare ancora a lungo. «Al massimo, qualche settimana», concludono.
Nel frattempo, la Nato ha fissato il termine per la missione a settembre. «Ma sarebbe meglio che finisse prima», sottolinea il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini. Dalla Gran Bretagna fanno sapere che «resteremo finché sarà necessario», come ribadisce il primo ministro David Cameron, mentre il numero due della Raf, Simon Bryant, lo contraddice in parte, ricordando che oltre settembre «è impossibile continuare l’operazione» a causa dei tagli alle spese militari. La Francia deciderà se continuare l’impegno in una sessione straordinaria il prossimo 13 luglio.
E se la missione sembra in bilico, sempre nuovi attori assumono importanza. La Cina si pone come mediatore, ospitando il presidente del Comitato di Transizione Nazionale per definire i termini della trattativa e cercare un accordo che porti alla pace. «Serve una soluzione politica», sottolinea il ministro degli Esteri Hong Lei. Mentre il presidente Usa Barack Obama, dal canto suo, chiama il primo ministro turco Tayyip Erdogan chiedendogli di mantenere alta la pressione internazionale. Prima o poi, dalla Libia si dovrà andare via. Ma Gheddafi, l’obiettivo numero uno, è ancora lì.