Il presidente del Sudan Omar al Bashir era atteso in questi giorni a Putrajaya, in Malaysia, per partecipare alla conferenza Langkawi International Dialogue sul business, lo Stato e i cambiamenti socio-economici contemporanei. Poi ha disdetto la partecipazione per via di «circostanze impreviste», come riferito dal ministro degli Esteri malaysiano, Datuk Seri Anifah Aman. In realtà è stata una scelta successiva ai manifesti malumori sia dell’opposizione sia di alcuni membri del governo malaysiano.
Mettere i piedi fuori dal paese africano è un rischio per Bashir: è inseguito da due mandati di cattura spiccati della Corte Penale Internazionale (nel 2009 e nel 2010) con l’accusa di crimini di guerra e genocidio per le violenze compiute contro i ribelli non arabi – diversamente dall’establishment politico di Karthoum – nel 2003, il massacro del Darfur. Bashir è salito al potere con un colpo di stato ventidue anni fa, e tuttora resiste. Amnesty International aveva chiesto alla Malaysia di revocare l’invito o altrimenti di arrestarlo. Il governo di Kuala Lumpur, però, non avrebbe potuto muoversi: seppure abbia intenzione di riconoscere la giurisdizione della Corte, come annunciato nel marzo scorso, non ha ancora ratificato lo statuto della Cpi nel quale si chiede ai paesi membri di arrestare i ricercati una volta entro i propri confini. Bashir è atteso in Iran questo sabato al Global Fight against Terrorism International Summit. Incontrerà anche il presidente Mahmoud Ahmadinejad e altri esponenti di governo, secondo l’agenzia stampa iraniana Mehr. Dal 27 al 30 giugno visiterà la Cina su invito del presidente Hu Jintao. Probabilmente indisturbato.
Sono passati tre anni da quando la Corte ha avviato le investigazioni su Bashir, dopo avere ricevuto mandato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, come accade quando un sospettato criminale vive in un paese che non riconosce la giurisdizione del tribunale internazionale. La sua cattura, però, si fa attendere. E la lenta burocrazia giudiziaria del tribunale de L’Aia – pecca riconosciuta anche dai suoi sostenitori – non sembra il solo motivo. L’esperienza libica, infatti, rinforza i dubbi sull’imparzialità e apoliticità della Corte.
La Corte ha aperto le investigazioni su Bashir due mesi dopo avere ricevuto il mandato Onu, nonostante evidenti prove utili a procedere. Eppure nel caso di Gheddafi l’inizio della “pratica” è stato quasi imminente: due giorni dopo l’avvio dell’operazione militare Odyssey Dawn l’attuale Procuratore della Corte, l’argentino Luìs Moreno-Ocampo, deputato alle investigazioni, ha aperto la procedura nei confronti del colonnello Muammar Gheddafi, il figlio Saif al-Islam, e l’ex capo dei servizi segreti Abdullah al-Sanoussi e altri cinque cittadini libici dichiarati colpevoli di crimini contro l’umanità; «le prove sono enormi», aveva detto Ocampo senza aggiungere altro, finché non ha pubblicamente rivelato le indiscrezioni sugli stupri di massa che sarebbero avvenuti in Libia.
Gheddafi è anche accusato di «sparizione forzata» dei suoi oppositori politici, la prima volta che la Cpi lancia un’accusa simile (è un fenomeno riconducibile all’esperienza argentina e cilena dei desaparecidos). L’azione della Corte, sollecitata peraltro dall’ambasciatrice statunitense presso l’Onu Susan Rice, è stata di una rapidità inconsueta: solitamente le indagini preliminari in paesi dove la Corte addirittura esercita la propria giurisdizione durano mesi o anni (Repubblica Centro Africana, 2 anni; Uganda, 6 mesi; Congo, 2 mesi).
«L’intervento della Corte penale internazionale nella questione libica è stato un escamotage degli Stati Uniti e dei loro alleati. Si trattava di dare un aspetto di legalità internazionale ad una guerra di aggressione totalmente contraria alla Carta delle Nazioni Unite, in particolare alla prescrizione del comma 7 dell’art.2: nessuno Stato può intervenire con la forza per risolvere questioni interne ad un altro Stato», spiega Danilo Zolo, già professore di Filosofia del diritto e Diritto internazionale all’Università di Firenze, in un’intervista pubblicata dall’Istituto di Politica Internazionale di Milano (Ispi).
Il paradosso è che gli Stati Uniti non hanno tuttora ratificato lo statuto della Corte, nonostante il presidente Bill Clinton l’abbia firmato nel 2000. La successiva Amministrazione di George W. Bush ha cercato peraltro di limitare le conseguenze dell’entrata in vigore sui propri cittadini. In quanto membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu, gli Usa hanno però piena capacità di influenzare l’operato della Corte e giustificarne, o meno, gli interventi. Inoltre, avere come interlocutore il procuratore Ocampo ne perpetua l’egemonia.
«Il procuratore – aggiunge Zolo – si è finora distinto per il suo ossequio nei confronti delle potenze occidentali, anzitutto degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Non ha esitato ad archiviare ben 240 denunce formalmente presentate alla Procura contro i crimini commessi in Iraq dalle truppe angloamericane nel 2003. Nonostante ne avesse piena competenza, in particolare nei confronti della Gran Bretagna, Ocampo non ha avviato alcuna indagine ed è ricorso ad una motivazione grottesca dell’archiviazione».
L’uccisione dei civili iracheni era involontaria, secondo Ocampo, perché non c’era «intenzione dolosa». Il che assolve le truppe occidentali anche dalla strage di Falluja provocata da un attacco arbitrario e ingiustificato alla popolazione civile attraverso armi non convenzionali (fosforo bianco). L’operato delle truppe internazionali, anche in altri scenari di guerra, getta ombre sull’imparzialità della giustizia praticata a L’Aia.
Il 14 giugno il congressman repubblicano Dennis J. Kucinich ha inviato una lettera a Ocampo e al Segretario Onu Ban Ki-moon chiedendo alla Corte di esaminare l’uso dei bombardieri senza pilota (droni) in Afghanistan, causa di un aumento del 32 per cento delle “casualities” (“fatalità”, morti tra i civili), secondo i calcoli del think tank New American Foundation.